È inutile nasconderlo, e i miei lettori lo sanno bene, non sono un fan delle interpretazioni di Riccardo Muti. Non per il culto che dedico a Claudio Abbado, che sarebbe entrare in considerazioni clanistiche dei tifosi abbadiani/mutiani, che ci fanno sorridere per amor di folklore ma non fanno avanzare di un millimetro la causa della musica.
Io invece adoravo, adoravo davvero il Muti della fine degli anni Settanta, quello che firmava il Verdi fiammeggiante di Firenze, Il Trovatore, Otello, un direttore d'orchestra che era una bomba vertiginosa di dinamica (e di dinamite), un direttore d'orchestra di fuoco. Ho amato l'abbagliante Muti in Capuleti e Montecchi alla Scala nel 1987 e nel 1988, e il leggendario Muti nella Lodoiska di Cherubini alla Scala nel 1991, di cui non ho perso nessuna rappresentazione.
Ma a poco a poco l'abbaglio ha spesso lasciato il posto a una sorta di compiacimento, un guardarsi allo specchio, il cui narcisismo ha finito per sconfinare nella noia a forza di ricercare il bel suono e le raffinatezze a scapito del teatro : ho trovato insopportabile il suo Trovatore alla Scala, mentre quello di Firenze mi aveva scosso nel profondo (ed è ancora vero quando lo riascolto).
Il suo Mozart, pur essendo classico, mi piaceva assai : era sempre teso, spesso dinamico (negli anni Ottanta il suo Cosi fan tutte fu un vero successo, così come Le Nozze di Figaro), molto attento alle voci, ai ritmi e al respiro, e non mi è mai stato antipatico, anche se ero stato cullato dalla scuola germanica (Karl Böhm o Josef Krips) o da un Georg Solti che trascendeva sia il Don Giovanni che Le Nozze di Figaro, tutti direttori che ho sentito all'Opéra di Parigi tra il 1973 e il 1980 : Abbiamo ciascuno le nostre scuole.
Muti aveva una spinta che ci trasportava, qualcosa di incisivo e profondamente operistico che rendeva le sue esecuzioni mozartiane, quando ben cantate, momenti di pura felicità.
Ma, a differenza di altri direttori, Riccardo Muti sembra, con l'età, non essersi affrancato e aver acquisito la serenità e la sicurezza nutrite dall'esperienza di una lunga carriera, ma essersi aggrappato a uno stile, a degli atteggiamenti, senza curarsi dell'evoluzione delle interpretazioni (c'è un prima e un dopo Harnoncourt, per esempio, così come tutto il contributo delle letture HIP (1), che ci fanno vedere un Mozart diverso). Altri direttori della sua generazione ne hanno tenuto conto nelle loro interpretazioni, rinnovandole e cercando di approfondirle.
Riccardo Muti no : si attiene a quello che ha sempre fatto, tanto da apparire, e in particolare questa sera a Palermo, meno interessante.
Intendiamoci, non dico che la sua direzione non sia quella di un grande direttore, ma si limita a ripetere in modo più pallido e, per dirla tutta, più routinario quanto sentito nel suo Don Giovanni del 1987 e nei suoi Don Giovanni di sempre. Stasera a Palermo si è fatta sentire l'ombra del grande passato, ma non certo un presente entusiasmante.
E questo mi rattrista profondamente.
L'ho amato, mi ha commosso, mi ha fatto sorridere, mi ha anche infastidito, ma mi ha anche fatto scoprire spazi e mondi, lui, come altri, è stato la mia vita, e rivederlo è stato fonte di emozione. E dalla fonte è scaturita stasera anche la delusione.
Anche se non sono un Mutiano D.O.C, speravo di sentire da questo monumento di 82 anni uno spirito liberato, alla Blomstedt, alla Haitink, alla Barenboim degli ultimi anni, lo spirito di chi non ha più nulla da dimostrare e può rischiare tutto, e invece no… non ho sentito nemmeno la voglia di farlo, in questa direzione musicale mai inaspettata, sempre autoindulgente, sempre speculare, e alla fine noiosa.
Chi può negare le qualità di Riccardo Muti ? Riconosciamo la sua precisione, la cura nel seguire e sostenere i cantanti, i passaggi fluidi dall'orchestra al continuo (Alessandro Benigni al fortepiano, eccellente), alcuni momenti impregnati di questo colore grandioso e assertivo, come l'accordo iniziale o l'apparizione del Commendatore alla fine, altre raffinatezze anche nei momenti più lirici (La ci darem la mano) o un Dalla sua pace meravigliosamente accompagnato, un desiderio di enfatizzare i contrasti, di raffinare il suono. Questo è indiscutibilmente "Grande Style", “Old great style”.
Dal canto suo, l'orchestra del Massimo ha seguito con attenzione e concentrazione, con un'esecuzione molto ben fatta : ha prodotto momenti di grande rilievo in cui si vede il lavoro fatto negli ultimi anni per rimettere a fuoco una formazione che non era una delle migliori orchestre di buca in Italia e che qui mostra quanta strada ha fatto, qui certamente grazie a Muti, ma anche e soprattutto grazie al lavoro di ampliamento del repertorio fatto dalla direzione artistica e dal direttore musicale Omer Meir Wellber negli ultimi anni.
In buca si riconosce certo un direttore d'orchestra di altissimo livello – come potrebbe essere altrimenti ? – un'innegabile padronanza tecnica, una nitidezza d'attacco, una scienza dell'equilibrio, una relativa chiarezza di resa – in breve, qualità che esaltano l'orchestra e dimostrano un'esecuzione solida, se non efficace…
Quello che non si riconosce, invece, è un impegno, un vigore, una voglia di affermare un Mozart drammatico, teatrale, sinfonico e soprattutto urgente. Spesso è un po' in sordina, con un'orchestra troppo discreta, e momenti un po' esagerati, trascinati verso contrasti in cui ciò che dovrebbe essere leggero lo è meno e ciò che dovrebbe essere drammatico è solo pesante, persino ponderoso, e altri momenti che sembrano dirci "guardate come suona" (questo colpisce in un'ouverture che è più il biglietto da visita del Maestro che un'ouverture mozartiana). L'ultima scena del primo atto, che Muti alla Scala aveva tanto scolpito e lavorato con le orchestre che suonavano sul palcoscenico e in buca, è relativamente indifferente senza vere sfumature, certo corre tutto, ma rimane anche lineare, un po' confusa e senza una vera attenzione ai dettagli, concentrandosi sull'ensemble finale come per raccogliere il consenso finale, un po' una ricerca dell'effetto – riuscito forse – ma che arriva dopo lunghi momenti senz'anima e finisce per essere superficiale.
Dov'è, infine, il crescendo drammatico della morte di Don Giovanni, colpi di timpano, accordi violenti, certo, ma nessun legame, nessuna ascesa in un momento che qualcuno nel 1987 paragonò (un po' esageratamente) a Furtwängler. Il suono di Muti può esserci, ma né il colore né, soprattutto, l'anima : tutto evaporato.
Riccardo Muti si mantiene su posizioni definitive che, come sappiamo, rifiutano i recenti sviluppi dell'interpretazione mozartiana. Questo pregiudizio può essere accettato – perché no ? In fondo, nell'arte tutto è ammissibile e bisogna ascoltare tutto per formarsi un giudizio e un gusto. Ma ciò che è più dannoso è che ci troviamo di fronte a una performance-testimonianza di altri tempi, fredda come un appartamento-vetrina che non appartiene a nessuno, anche se è pulito e splendente. Vediamo in questa direzione non un desiderio di vita, di futuro, di andare oltre, ma il semplice desiderio di dire "Questo è il mio Mozart!" e di consegnare un pacchetto dogmatico "come in sé l'eternità finalmente lo cambia", senza alcuna sfida artistica.
L'orgogliosa immobilità, in arte, è un po' tesa e diventa rapidamente inutile narcisismo.
Una compagnia di canto molto impegnata e particolarmente preparata
D'altra parte, l'esecuzione beneficia di un cast per lo più giovane (o apparentemente tale, anche se non tutti lo sono) e vigoroso, il che fa ben sperare per il futuro degli interpreti mozartiani in Italia.
È un effetto collaterale positivo della presenza di Riccardo Muti, che da sempre ama lavorare con voci più giovani, come dicevamo, non ancora "pervertite" dagli effetti della carriera o della routine : ricordiamo che alla Scala propose in Traviata due cantanti sconosciuti con cui aveva lavorato a fondo, Tiziana Fabbricini e Roberto Alagna, proprio per evitare gli effetti del confronto e dell'abitudine.
Questo è in qualche misura il principio alla base delle sue recenti proposte mozartiane : era già successo per Cosi fan Tutte a Torino nel 2021, dove il cast comprendeva cantanti che rivediamo qui, meno per quello di Napoli nel 2018, dove i cantanti avevano un po' più di esperienza. La preparazione con il direttore d'orchestra e la sua attenta presenza si vedono nel risultato complessivo piuttosto lusinghiero, e innanzitutto si apprezza un Don Giovanni cantato da artisti che capiscono cosa stanno cantando, dotati di una bella dizione e di un fraseggio impeccabile, con la consapevolezza del peso delle parole che si sentono, tanto più che sono tutti, o quasi, attori efficaci, restituendo ai recitativi la loro funzione dinamica e alle parole tutto il loro colore. Ed è chiaro che da questo cast emergono voci che sicuramente si faranno sentire e che già si fanno sentire qua e là. Il Maestro, fedele ai suoi metodi, lavora con i cantanti con attenzione, anche in questo caso in cui il cast era quasi identico a quello di Torino, e questo lavoro rinnovato si sente e si vede. Tutti i direttori d'orchestra dovrebbero applicarsi a questo lavoro, non è sempre così, come sappiamo. Muti va lodato per questa volontà, questa permanenza.
Mentre il cast torinese comprendeva cantanti di grande esperienza come Riccardo Zanellato o già ben avviati alla carriera come Jacquelyn Wagner, quello palermitano, molto simile, dà una chance a cantanti meno noti, come nel caso di Vittorio De Campo, un giovane basso che ha appena vinto diversi concorsi internazionali e che è seguito da Riccardo Muti, Ha interpretato un Commendatore dotato di autorità, con una voce certamente giovane, ma potenta, ben proiettata, profonda e omogenea, con una dizione molto chiara e impressionante nella scena del confronto finale con Don Giovanni, senza dubbio una voce di grande qualità e un nome da seguire con grande attenzione.
Leon Košavić è stato Masetto, come a Torino, avevamo scritto di lui nella sua performance ginevrina come Albert/Ruggiero ne La Juive nel 2022 : Leon Košavić (che) canta Alberto e Ruggiero (come all'Opera delle Fiandre nel 2019) con un fraseggio chiaro, una dizione impeccabile, un timbro caldo e una reale presenza vocale. Il ruolo non è molto sviluppato, ma è perfettamente difeso.
La stessa impressione si ha qui, dove l'impegno del cantante è evidente, con un canto energico e colorato e una bella chiarezza nell'emissione, per un ruolo solitamente affidato a un basso (come Leporello, qui cantato anche da un baritono). Il colore baritonale gli conferisce un po' più di giovinezza, e si percepisce che ha imparato il mestiere a Zagabria con Giorgio Surjan, un cantante che ha cantato così spesso con Muti e che è sempre stato uno stilista impeccabile. Ancora una volta, un nome da tenere d'occhio.
Al suo fianco Francesca di Sauro, freschissima Zerlina, giovane mezzosoprano che ha già lavorato con Riccardo Muti (è stata Despina in Così fan Tutte): la voce da mezzosoprano dà più peso al personaggio (Francesca di Sauro ha cantato Carmen di recente) ma conserva una vera naturalezza e una certa eleganza di fraseggio, pur con qualche fragilità nella precisione e nel controllo dell’intonazione, ma il personaggio c'è, ben piantato e seducente sulla scena.
Giovanni Sala nel ruolo di Ottavio è senza dubbio uno dei gioielli del cast. Lo stiamo vedendo un po' ovunque nei teatri internazionali, ed è senza dubbio uno dei tenori più interessanti della generazione emergente : il suo Ottavio è di rara eleganza, con un fraseggio impeccabile e una dizione cristallina. La voce è sostenuta in tutto lo spettro, come nel particolarmente poetico Dalla sua pace, con un sottile e controllato dosaggio del volume (superbamente accompagnato da Muti) che gli è valso una meritata ovazione, come ne Il mio tesoro, dove l'agilità, mai affettata, mai manieristica, e la naturalezza del canto conferiscono al personaggio una singolare personalità ; un grandissimo Ottavio, che in questo ruolo dovrebbe attirare l'attenzione di molti casting-managers…
Conosciamo e apprezziamo Mariangela Sicilia, qui una vivace Elvira al limite della nevrosi, il cui canto è impegnato ma anche controllato e colorito. Si potrebbe preferire un'Elvira più interiore, più lacerata (la messa in scena senza dubbio gioca un ruolo importante), con note gravi più marcate (Muti ha diretto una volta alla Scala una Ann Murray profondamente commovente), ma lei dà al personaggio una certa giovinezza e freschezza che non incontriamo spesso, anche se il canto appare stilisticamente un po' macchiato di verismo : le fragilità del personaggio sono perfettamente incarnate, ma in un senso dimostrativo e talvolta frenetico che può risultare fastidioso. Tuttavia, l'insieme è pieno di rilievo.
Maria Grazia Schiavo non è una principiante, essendo emersa nel 2007 e vista all'Opéra di Parigi (e a Salisburgo) nel Demofoonte di Jommelli nel 2009 sotto la direzione dello stesso Muti. La voce è chiara e altrettanto impegnata, con qualche imprecisione negli attacchi. È una Donna Anna drammatica, la cui vocalità mi è sembrata un po' leggera per il ruolo, davvero coinvolta in scena, ma che manca di corpo vocale e si differenzia poco da Elvira. Ciononostante, l'interpretazione è stata molto credibile e ha incontrato successo.
Come è giusto che sia, l'intera costruzione si basa sul binomio Don Giovanni/Leporello, un binomio che può essere concepito come vocalmente contrastante o vocalmente parallelo, a seconda che si veda Leporello come una sorta di doppio buffo di Don Giovanni. Certi cantanti hanno cantato i due ruoli, ad esempio José Van Dam, basso-baritono, è stato (un po') Don Giovanni e molto (e con grande brio) Leporello e Gabriel Bacquier fu un grande Don Giovanni e un’irresistibile Leporello.
Qui abbiamo due baritoni, uno un po' più basso (Micheletti) e l'altro più baritono (Alessandro Luongo), entrambi artisti di grande esperienza (hanno sui quarant'anni) ma che da pochissimo tempo si sono affermati sui grandi palcoscenici internazionali.
Come il suo collega, Alessandro Luongo è un cantante di rara eleganza, dotato di grande presenza scenica e agilità. La sua voce è più chiara, molto ben proiettata e quindi molto presente. Il suo canto è molto vario, molto colorito, molto intelligente, ed è veramente un Leporello di grande profilo, mai volgare, dotato di notevoli qualità di fraseggio, che ha lavorato sull'espressività, sul timbro, sulle diverse sfaccettature del personaggio, sapendo imporre la sua differenza sulla scena. Uno dei migliori Leporello degli ultimi anni.
Luca Micheletti è un artista singolare, conosciuto come regista e attore, recentemente emerso con grande successo come cantante (baritono) scoperto sia alla Scala che al Covent Garden. È questa versatilità che serve a un personaggio polimorfo come Don Giovanni e gli conferisce una notevole presenza scenica. Ma se le sue qualità di attore sono grandi, quelle di cantante non lo sono di meno, con un'attenzione all'espressione e al testo sostenuta da un controllo continuo, sempre improntato all'eleganza e che garantisce al personaggio quello status di "gran signore" che è prerogativa di Don Giovanni. È davvero un Don Giovanni di alta qualità e di indubbio interesse, a cui manca solo un pizzico di volume, un'ampiezza vocale più decisa, soprattutto in Fin ch'han dal vino come un Raimondi o un Ramey, senza rivali nel ruolo negli ultimi trenta o quarant'anni. In ogni caso, Micheletti ha tutte le carte in regola per essere uno dei grandi Don Giovanni del nostro tempo.
Questo cast vivace ed energico è forse la cosa migliore dell'esperienza musicale della serata : è il risultato di un paziente lavoro con Riccardo Muti, evidente in ogni momento, a cui va aggiunta la prestazione piuttosto lusinghiera del coro del Teatro Massimo, nascosto in buca preparato da Salvatore Punturo (in particolare nella scena della morte di Don Giovanni).
Una messa in scena le cui (buone) idee sono tradotte in modo maldestro
Il terzo elemento della serata è stata la messa in scena di Chiara Muti, figlia di…, anche se conosciamo il rapporto piuttosto distante del padre, Riccardo Muti, con la messa in scena, da sempre convinto che il direttore d'orchestra sia l'architetto dell'Opera, a scapito di tutto il resto. Niente Gesamtkunstwerk per lui, ma una Mutikunstwerk…
Con queste premesse, si sarebbe potuto temere uno di quegli allestimenti passepartout preferiti dal Maestro, che non lo mettessero in ombra. Ma non è così e il lavoro di Chiara Muti, pur essendo indubbiamente discutibile da molti punti di vista, merita comunque di essere analizzato e discusso.
Una delle caratteristiche di questo allestimento è che è leggibile (o più o meno) a prima vista, si svolge in modo fluido con una buona direzione degli attori, in scenografie scure (più drammatiche che giocose) di Alessandro Camera e costumi di Tommaso Lagattolla che si muovono tra il nero dei due protagonisti (e di Ottavio), e il colore per gli altri, culminando nel bianco della giovane coppia Zerlina/Masetto, che si muove anch'essa tra le epoche : Seicento per Donna Anna, Ottocento per Elvira, Novecento per Zerlina e Masetto.
Da decenni, l'atemporalità dei miti teatrali è stata affermata mescolando le epoche dei costumi : nessuna sorpresa.
Ma qua c’è un altro discorso.
A prima vista, lo spettatore vede tende, tendaggi, tele dipinte di grigio che evocano l'architettura, un palcoscenico inclinato da cui i personaggi emergono attraverso botole, e subito si pensa al "teatro", e vista l'architettura e il modo in cui tutto è disposto, Pensiamo al "barocco", soprattutto quando Don Giovanni appare al culmine della scenografia per la festa finale del primo atto, vestito con una toga dorata, con un Sole luminoso dietro la testa che dovrebbe rappresentare il Re Sole che grida "Viva la libertà ! ", un Re Sole che sembra un Cristo barocco degli altari delle chiese bavaresi…
Se c'è un teatro, è soprattutto un teatro di marionette, poiché i costumi dei personaggi pendono e li indossano, come si indossa un ruolo, marionette di una storia di cui sono le eterne vittime.
La storia di Don Giovanni (o il mito di Don Giovanni) si conclude, in Mozart-Da Ponte come in Molière, con una sorta di morale della storia, in cui si rivela chiaramente la solitudine di tutti i personaggi, ognuno dei quali va per la sua strada, trascinando con sé i propri rimpianti, le proprie disgrazie e le proprie amarezze. La morte di Don Giovanni non risolve nulla e non rende felice nessuno ; il danno è stato fatto e ognuno porta con sé le proprie ferite (il famoso grido finale di Sganarelle nella pièce di Molière : "Tutti sono soddisfatti della sua morte, il cielo offeso, le leggi violate, le figlie sedotte, le famiglie disonorate, i genitori oltraggiati, le mogli danneggiate, i mariti spinti al limite, tutti sono felici…"). Il danno è fatto e rimane irreparabile, non certo liberatorio : Sganarelle sbaglia : nessuno è felice.
Tutti erano molto più felici di perseguire il "colpevole", che dava un senso alla loro vita. Scomparso il colpevole, tutti sono rimasti soli con le loro disgrazie. Nulla si risolve perché gli altri hanno bisogno di Don Giovanni per esistere.
E quando Don Giovanni scompare, inevitabilmente trascina con sé gli altri, con le loro ossessioni e la loro visione di lui : Don Giovanni non può esistere da solo : esiste attraverso gli altri, attraverso gli occhi degli altri, a cominciare da Leporello/Sganarelle.
Tutto questo è noto, ma Chiara Muti lo sottolinea con questo spettacolo di marionette : gli anonimi che si confrontano con Don Giovanni, chiunque essi siano, devono "indossare il costume" e calarsi nel ruolo, perché il mito, per l'eternità, è inevitabilmente riprodotto dalla contrapposizione tra Don Giovanni e tutti gli altri. In questa rappresentazione palermitana, tutti i personaggi sono in cerca di ruoli, il che è vagamente pirandelliano e quindi del tutto in sintonia con la Sicilia del grande scrittore e del suo teatro. Ma spiega anche i costumi dei vari secoli…la storia si ripete, il tempo non ha senso nell’eternità.
Così è tutto quello che vediamo, con la presenza di numerose comparse, ombre di donne che appaiono nell’aria del catalogo, o alla morte di Don Giovanni come Le Erinni in un’ambiente cupo assai : molti spettatori all'intervallo hanno criticato la "mancanza di colore", sostenendo che Don Giovanni è certamente un Dramma, ma è anche giocoso, e che il giocoso sembrava singolarmente assente – come se, del resto, il colore vi facesse inevitabilmente riferimento, il che si può discutere.
Questa prima visione, un po' superficiale, avrebbe potuto bastare da sola, e ci saremmo trovati di fronte a un Don Giovanni ben curato, con le sue sfumature barocche, la sua vivacità e i suoi personaggi un po' smarriti… Un classico, insomma.
Ma la nota d'intenti di Chiara Muti rivela una sovrabbondanza di molteplici intenzioni e riferimenti, tutt'altro che sciocchi (Edmond Rostand, Musset, Pasolini), ma che faticano a tradursi visivamente in modo così chiaro. Il risultato è una sovrapposizione di idee, effetti e suggestioni che cogliamo 'a freddo', dopo lo spettacolo, e che ci portano a dire che ci è sfuggito qualcosa che avrebbe potuto essere vincente, ma che rimane a metà (se non all'inizio) del guado.
L'idea è che Don Giovanni non brucerà tra le fiamme dell'Inferno, ma che è condannato a essere Don Giovanni per l'eternità, preda per l'eternità degli stessi personaggi che lo inseguono per l'eternità. Un inferno per tutti, per così dire.
Chiara Muti si riferisce chiaramente a un'opera di Edmond Rostand, un poema drammatico scritto nel 1911, "La dernière nuit de Don Juan" (L'ultima notte di Don Giovanni), che fu rappresentata postuma nel 1922 al Théâtre de la Porte Saint Martin a Parigi. E possiamo sospettare che Edmond Rostand avesse letto una delle poesie dei Fiori del Male di Baudelaire, una delle più suggestive e sorprendenti, Don Juan aux Enfers/Don Giovanni all’Inferno (Spleen e Ideale, poesia XV), che qui riproduciamo :
Baudelaire Don Giovanni all’Inferno
Quando Don Giovanni verso l’onda sotterranea
discese, ed ebbe dato il suo obolo a Caronte,
uno straccione cupo con l’occhio fiero d’Antistene,
s’impossessò dei remi con gesto di vendetta.
Mostrando i seni penduli e le vesti aperte,
donne si torcevano sotto il nero firmamento,
e come un vasto gregge di vittime offerte
dietro di lui muggivano con lungo lamento.
Sganarello ridendo gli chiedeva la paga,
e intanto Don Luigi, con dito tremante,
mostrava a tutti i morti che sulle sponde vagavano
il figlio audace che schernì il suo capo bianco.
In lutto, tutta brividi, la casta e magra Elvira,
presso lo sposo perfido, che fu suo amante un tempo,
sembrava reclamare un ultimo sorriso
acceso dalla dolcezza del primo giuramento.
Ritto nell’armatura un uomo alto di pietra
stava al timone e fendeva l’onda nera ;
ma il calmo eroe, sulla sua sponda raccolto,
fissava la scia e non degnava altro vedere.
Nel poema di Baudelaire, c'è una sorta di viaggio agli Inferi (abbastanza dantesco, l'allusione alla Divina Commedia è evidente) in cui Don Giovanni, nella barca sul fiume Stige, si muove tra le sue vittime che gli chiedono una resa dei conti eterna.
Nel poema drammatico di Edmond Rostand (che non ebbe il destino felice di Cyrano de Bergerac) Don Giovanni negozia con il Diavolo una tregua… Ecco l'argomento dell'opera :
Don Giovanni viene portato all'Inferno dalla statua del Commendatore, ma negozia con il Diavolo. Il Diavolo gli concede una tregua di dieci anni. Dieci anni dopo, il Diavolo sotto le spoglie di un burattinaio ritorna e trova Don Giovanni. Don Juan difende il lavoro di tutta la sua vita, ma in una crudele giostra oratoria, il Diavolo mostra a Don Juan il fallimento della sua esistenza. Don Juan crede di aver "posseduto" e "conosciuto" 1.003 donne, ma le ombre delle donne vengono a dimostrargli che si sbaglia. Arrivano tutte mascherate e gli dicono poche parole : se il seduttore riuscirà a chiamare una sola di loro per nome, sarà libero. Non ci riesce. Don Juan afferma poi di averle fatte piangere : se una sola lacrima è sincera e Don Juan se ne ricorda, sarà salvato. Fallisce di nuovo. Don Juan afferma poi di aver "fatto l'elemosina", ma "il povero" gli getta sprezzantemente in faccia l'elemosina d'oro. Don Giovanni, allo stremo delle forze, viene mandato nella scatola dei burattini, perché non è degno nemmeno delle fiamme dell'Inferno.
Per Rostand (come per Baudelaire), questo è il Don Giovanni di Molière, ma la sostanza dell'opera è che Don Giovanni è un burattino come tutti gli altri, eternamente condannato a patteggiare con "gli altri"… L'inferno è un luogo dove i burattini prendono vita. “L'inferno sono gli altri", per così dire e per dirlo come Sartre in “A porte chiuse”.
Se Don Giovanni è un burattino, gli altri, che hanno senso solo se Don Giovanni esiste, non lo sono di meno, e appaiono nella scena finale in mutande, senza costume, dove sono altrettanto vuoti, in attesa di un senso e di un nuovo inizio alla loro vita. È un'idea interessante che però non viene approfondita chiaramente.
Rileggiamo Rostand :
IL DIAVOLO
Sarai una marionetta, e riprodurrai
L'eterno adulterio in un quadrato bluastro.
DON GIOVANNI
Eterno fuoco !
IL DIAVOLO
No ! Eterno teatro !
DON GIOVANNI
Non voglio…
Chiara Muti rappresenta una sorta di teatro eterno, in cui questo Don Giovanni sarebbe solo uno spicchio di vita, o meglio uno spicchio di morte, o meglio ancora uno spicchio di eternità nella sua ripetizione. L'idea è valida, ma avrebbe dovuto essere resa più leggibile nel suo aspetto ciclico, mentre per lo spettatore c'è un inizio e una fine, anche se, come abbiamo visto, questa fine non è mai una fine perché non se ne guarisce mai.
L'allusione al Re Sole come a una statua barocca, con Donna Anna vestita come una vaga Montespan, era davvero così rilevante ? Invece l'osservazione di Chiara Muti sul lato affettato e artificiale del dolore di Donna Anna dopo la morte del padre era forse più interessante, ma mal tradotta in scena e nella recitazione : avrebbe dovuto spingersi oltre. Interessante anche la scelta di rendere Elvira più un'eroina ottocentesca che settecentesca, più "romantica", ma in questo caso sarebbe stato necessario andare oltre, anche se la recitazione più esteriore di Elvira era una possibile strada da percorrere.
L'impressione è quella di una sovrapposizione di idee – di per sé affascinanti perché il mito è inesauribile – non necessariamente gerarchizzate, ma accumulate in una sorta di orrore del vuoto con qualche successo come la visione del cimitero, con le sue marionette abbandonate, consumate, usate, come traccia dei passaggi e dei ripassi di Don Giovanni, come se a ogni ripetizione della storia vi fossero depositati i detriti delle vanità dongiovannesche. D'altra parte, ci sono alcuni problemi, come la scena finale del primo atto, che è mal impostata, sovraccarica e difficile da leggere.
C'è una messa in scena, o meglio un'idea drammaturgica interessante, che non trova la sua giusta collocazione sul palcoscenico, tanto che chi non legge la nota d'intenti di Chiara Muti nel programma di sala può avere l'impressione di aver assistito a un Don Giovanni indifferente, abbastanza elegante e non fatto male, ma che non fa progredire la nostra conoscenza del mito. È la contraddizione di uno spettacolo più ambizioso di quanto non sembri e, soprattutto, meno superficiale, la cui ambizione si concretizza purtroppo sul palcoscenico solo in immagini spesso banali e prive di visione.
Tuttavia, il mito di Don Giovanni era vivo e vegeto nel XIX secolo, in Russia con Puškin, in Francia con la Namouna di Musset (da cui Chiara Muti cita la strofa LIV del Canto II)(1), in Germania con Hoffmann e così via, fino a Baudelaire, e nel XX secolo con Rostand, Max Frisch e Horváth.
Lo scorso settembre, l'Opéra national du Rhin ha messo in scena a Strasburgo la prima mondiale del Don Giovanni aux Enfers (Don Giovanni agli Inferni) di Simon Steen-Andersen nell'ambito del Festival Musica (vedi la nostra recensione (in francese)), dimostrando che l'approccio di Chiara Muti è ancora attuale, anche se non nuovo. È tradotto scenicamente in modo maldestro, con alcune idee mal visualizzate e altre ben riuscite, ma senza mai purtroppo impressionare veramente la mente e la visione dello spettatore.
Questo Don Giovanni condannato a ripetersi all'infinito, in un inferno di marionette alla Rostand, ideato da Chiara Muti, potrebbe in fondo essere una metafora (sgradevole) di un Don Giovanni musicalmente tutto sommato "immobile" di un Riccardo Muti che ha scelto la ripetizione piuttosto che la rivoluzione ?
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- (1) HIP : Historically Informed Performance : Movimento nato nella seconda parte del Novecento dalle ricerche musicologiche, in particolare sulla musica dei Sei- e Settecento, l'esecutore utilizza ad esempio strumenti d'epoca (o copie di strumenti) e lavora molto sull'interpretazione, sia vocale che strumentale, sull'ornamentazione, sui diapason e sui tempi utilizzati, onde ritrovare lo stile dell’interpretazione originale.
- (2) Et le jour que parut le convive de pierre,
Tu vins à sa rencontre, et lui tendis la main ;
Tu tombas foudroyé sur ton dernier festin :
Symbole merveilleux de l’homme sur la terre,
Cherchant de ta main gauche à soulever ton verre
Abandonnant ta droite à celle du Destin
E il giorno in cui apparve il convitato di pietra,
Tu gli andasti incontro e gli tendesti la mano ;
Sei stato colpito da un fulmine durante il tuo ultimo banchetto :
Un meraviglioso simbolo dell'uomo sulla terra,
cercando con la mano sinistra di sollevare il bicchiere
Abbandonando la tua destra a quella del destino !
Musset, Namouna (1831), Canto II, LIV