Qualche settimana prima della Scala di seta, alla Royal Opera House di Muscat (così in inglese, ma la translitterazione italiana Mascate è più vicina all’originale in arabo) erano state rappresentate La Traviata e Madama Butterfly : argomento di queste due opere di Verdi e Puccini sono amore e morte, due momenti universali della vita, che toccano ogni essere umano, qualsiasi sia la sua cultura e facilitano il pubblico a superare l’ostacolo di un linguaggio musicale e di una forma teatrale fino a poco fa quasi totalmente ignoti in questa parte del mondo.
Il comico invece è meno universale e può manifestarsi in modi anche molto diversi nelle varie culture : una persona che ruzzola per terra fa ridere ovunque, ma in altri casi quel che fa ridere in Europa può sembrare sconveniente e imbarazzante a una arabo o a un giapponese. Dunque passare da Traviata e Butterfly a La scala di seta di Rossini è un gran salto per uno spettatore dell’Oman. Questa piccola premessa per dire che gli omaniti sono stupefacenti : non vogliono rinunciare alle loro tradizioni, ma non credono che aprirsi alle altre culture sia un pericolo per la loro identità e quindi sono straordinariamente aperti alle persone e alle culture che vengono da fuori.
No si può negare che per La scala di seta il teatro non era esaurito come per Traviata e Butterfly (d’altronde lo stesso sarebbe successo a Milano, a Roma e ovunque… tranne che al Rossini Opera Festival) ma il successo non è mancato : e quando diciamo successo, non pensiamo soltanto ai calorosi e prolungati applausi finali ma anche e soprattutto alle risate che hanno punteggiato la rappresentazione.
Le due recite della Scala di seta in Oman fanno parte di un progetto di lungo respiro che la ROH Muscat, diretta dall’italiano Umberto Fanni, sta sviluppando insieme al ROF di Pesaro. Si tratta della rappresentazione delle cinque farse di Rossini nel corso di cinque stagioni. Si è iniziato l’anno scorso con L’occasione fa il ladro, ora è stata la volta della Scala di seta e nella prossima stagione si proseguirà con L’inganno felice : queste tre produzioni sono già state viste a Pesaro, ma poi ci sarà una svolta, perché le ultime due farse, La cambiale di matrimonio e Il Signor Bruschino, saranno nuovi allestimenti coprodotti dalla ROH e dal ROF. È un passaggio molto importante per il teatro omanita, che finora si è limitato a importare opere dai teatri di mezzo mondo ma adesso sta cominciando a intervenire direttamente nella ideazione e nella progettazione degli spettacoli, che per un po’ verranno comunque realizzati “fuori casa”, poiché a Mascate non ci sono ancora i reparti tecnici necessari per produrre scene, costumi e quant’altro, sebbene il teatro pensi di dotarsene in futuro.
Tornando alla Scala di seta, è stato ripreso l’allestimento pesarese del 2009, rappresentato in seguito anche alla Scala e in altri teatri. La regia è firmata da Damiano Michieletto ed è stata riprodotta in questa occasione da Eleonora Gravagnola, mentre le scene e i costumi sono di Paolo Fantin. A mio giudizio l’accoppiata Michieletto – Fantin non sempre ha prodotto risultati convincenti nel Rossini serio, ma è irresistibile nel Rossini comico. Si comincia dalla Sinfonia, quando un arredatore à la mode cerca di spiegare a un gruppo di facchini pasticcioni come disporre i mobili in un nuovo appartamento ancora vuoto, la cui pianta è disegnata sul piancito del palcoscenico ed è riflessa da un grande specchio che sovrasta la scena, in modo che anche noi spettatori in platea possiamo vederla. Tutti i movimenti di questa pantomima sono in sincronia perfetta con la musica, comprese le pause, che si traducono in scena nell’improvviso stop della frenesia motoria dei figuranti : la “follia organizzata e completa” di Rossini è servita.
In seguito quel che accade nel corso di questa farsa, tanto esile e improbabile quanto complicata e inestricabile, è squadernato davanti agli occhi degli spettatori, grazie al fatto che le porte e le pareti che dividono i vari ambienti della casa di Giulia sono solo immaginarie e che tutto si svolge sotto i nostri occhi. E se qualcosa non si vede direttamente, come l’arrampicarsi dei vari pretendenti sulla scala di seta, ci pensa lo specchio sovrastante a mostrarcelo. Spumeggiante e veloce, la regia si snoda in un ininterrotto fuoco di fila di trovate, senza sbagliare un colpo, talvolta spingendosi fin quasi all’eccesso, ma fermandosi sempre un passo prima. Non è un problema che tutto questo non serva affatto a far comprendere la trama, perché in ogni caso quel che succede in scena non ha alcun senso. L’unico appunto è che in quest’ennesima ripresa qualche meccanismo comico funziona meno impeccabilmente della prima volta, senza tuttavia inficiare la brillantezza di fondo dello spettacolo.
La compagnia era interamente formata da ex allievi dell’Accademia Rossiniana di Pesaro, giovani e meno giovani, che non si sono trovati davanti ad un compito facile, perché le farse di Rossini possono talvolta apparire semplici, ma è un’impressione ingannevole. Si deve credere che il Teatro San Moisé di Venezia, nonostante si dica che fosse sull’orlo del fallimento, non era poi così malmesso e poteva mettere fior di cantanti a disposizione dell’esordiente Rossini. La prima Giulia fu Maria Cantarelli, non una diva ma sicuramente un’ottima cantante, di cui i contemporanei lodavano “la voce agile e intuonata, lo stile di canto ed il sceneggio naturale e vivace” e “la dolcezza e la flessibilità dell’armoniosa sua voce e la maestria del canto, che parve superare le più esperte attrici [id est cantanti]”. Si possono trasferire pari pari questi elogi alla giovane spagnola Marina Monzò, interprete ideale della protagonista Giulia.
Il primo Germano fu il basso buffo Nicola De Grecis, che era uno dei migliori interpreti del Rossini comico negli anni tra il 1810 e il 1824, quando il pesarese scriveva per i teatri italiani, prima di passare in Francia. Che fosse un cantante fuori dall’ordinario lo dimostra l’aria scritta per lui da Rossini in questa farsa, che richiede un’estensione di oltre due ottave. Paolo Bordogna è riuscito a cantarla con la massima disinvoltura, senza lasciar trapelare quanto fosse difficile, così come bisogna fare, perché l’esibizione vocale è esiziale nell’opera comica. Per quanto Bordogna sia bravo come cantante, è soprattutto la sua recitazione da vero animale da palcoscenico a catturare lo spettatore : la sua personificazione del “collaboratore domestico” filippino è irresistibile e gli spettatori omaniti si sono divertiti un mondo.
Anche la parte di Dorvil fu sicuramente scritta per un tenore di notevole capacità, perché è cosparsa di scogli che Pietro Adaini superò indenne, tradendo appena un po’ di sforzo nei passaggi più acuti. Brava e spiritosa Laura Verrecchia come Lucilla e inappuntabile Davide Giangregorio nella parte di Blansac. Enrico Iviglia era un lusso come Dormont, il solito vecchio tutore, che questa volta è sorprendentemente affidato ad una voce di tenore.
Dirigeva il messicano Iván López-Reynoso, che fin dal frizzante attacco dei violini nella Sinfonia d’apertura ha dimostrato di saper restituire all’orchestra di Rossini tutta la leggerezza e tutta la vivacità immaginabili, guidando con mano sicura la valida Orchestra Sinfonica G. Rossini.