Il libretto di Francesco Maria Piave, che tratta delle conseguenze delle rivalità di grandi famiglie veneziane, è basato sul dramma di Byron, The two Foscari, che interessò Verdi per La Fenice. Ma poiché la maggior parte delle famiglie citate erano ancora presenti nella Venezia dell'Ottocento, e che a storia stessa non dava delle suddette famiglie una immagine di nobiltà e apertura, Venezia rifiutò il soggetto, e l'opera fu presentata in prima assoluta a Roma al Teatro Argentina nel novembre 1844…
I due Foscari non è uno dei titoli preferiti dal pubblico per un motivo abbastanza semplice, è che i personaggi sembrano intrappolati fin dall'inizio e hanno poche possibilità di uscire dalla loro situazione. Il risultato è un ambiente particolarmente statico, piuttosto una lunga attesa della condanna finale di Jacopo Foscari in mezzo a varie deplorazioni, l'eroe Jacopo, molto byroniano, il padre Francesco lacerato tra l'amore filiale e la ragione di Stato, la moglie Lucrezia che cerca di salvare il salvabile.
Infatti, Jacopo, marito generoso e uomo amante della libertà, è vittima delle sue convinzioni e viene falsamente accusato e condannato su istigazione di Jacopo Loredano, nemico giurato dei Foscari, che si nasconde nell'ombra e che fa suo strumento del Consiglio dei Dieci, responsabile della sicurezza dello Stato. Dietro l'accusa di cui Jacopo è vittima, come in un gioco da biliardo a due colpi, è Francesco il vecchio Doge che viene preso di mira, per cacciarlo fuori, dopo il più lungo regno di un doge di Venezia (34 anni).
Alla fine, Jacopo, appena imbarcatosi in esilio, muore, e suo padre Francesco, venuto a conoscenza della notizia e cacciato dal potere, muore sua volta, solo la vedova Lucrezia rimanendo viva con i suoi figli.
Si tratta di un'opera più ricca di melodie o monologhi singolari che di ensemble impressionanti, anche se il coro è un importante ma impotente commentatore del dramma. Le esigenze di canto sono particolarmente impressionanti, soprattutto per Lucrezia, uno dei ruoli più difficili di Verdi, ancor più di Abigail (Nabucco) o Odabella (Attila), ma anche per Francesco Foscari il baritono (la voce preferita di Verdi) che tiene la scena da solo nella parte finale, meno forse per il tenore (Jacopo) e tanto meno per il basso (Loredano “il cattivo”).
Leo Muscato ha concepito (?) per quest'opera statica una messa in scena ancor più statica, con spazio circolare fisso (scene di Andrea Belli) su cui si svolgono tutte le scene, come nell'orchestra di un teatro greco, circondato da una struttura semicircolare su cui si vedono ritratti di noti Dogi veneziani. Le luci di Alessandro Verazzi creano un'atmosfera elegante, e sono abbastanza riuscite ; purtroppo i movimenti sono rozzi, la recitazione è elementare (la solita recitazione passe-partout del cantante lirico) e le personalità sceniche dei cantanti non sono abbastanza forti da compensare il vuoto concettuale di questa regia, la cui scelta principale, spiegata nel programma di sala, è stata quella di vestire i personaggi in costumi ottocenteschi con alcune variazioni medievali (bei costumi di Silvia Aymonino), probabilmente per sottolineare che questa storia può attraversare i secoli e può succedere ad ogni epoca.
Lo spettacolo rimane insipido, senza vero rilievo, e ci vuole tutto il talento di Vladimir Stoyanov (Francesco Foscari) per far uscire il tutto da un pericoloso torpore nel terzo atto, semplicemente perché interpreta il suo personaggio, molto più degli altri protagonisti. E non parliamo dei movimenti del coro, degli ingressi e delle uscite… Possiamo rammaricarci che l'apertura dell'edizione 2019 del Festival Verdi si sia svolta all'insegna di uno spettacolo così poco inventivo.
Dal punto di vista musicale, la povertà di ispirazione scenica si riflette sulla buca. Paolo Arrivabeni che è un grande professionista guida tutto con una vera professionalità, certamente, senza nessun problema musicale particolare, ma manca un po' di originalità, impegno, fantasia per esaltare questa musica di un colore piuttosto scuro, rimane sull’orlo della routine. Notevole è invece il coro ben preparato da Martino Faggiani, ma Leo Muscato non fa quasi nulla per farlo muovere in scena.
Poco stimolati dall’orchestra, anche se accompagnati con sicurezza, i cantanti si esibiscono per la maggior parte senza mettersi veramente in risalto. Giacomo Prestia è un Jacopo Loredano irriconoscibile, perché la voce proietta così male, perché rimane bianca assai. Abbiamo conosciuto questo cantante con ben altro rilievo nella parte di Filippo II : dove sono le armoniche, dov'è la forza, dov'è la voce cupa ? È un canto indifferente con il classico gioco del cattivo (occhi accigliati e movimenti bruschi) ma Muscato non lo ha proprio accompagnato. Stefan Pop (Jacopo Foscari) è più impegnato, non gli manca ne rilievo ne voce ben proiettata ne bella presenza vocale, ma non basta a compensare la pallida recitazione da eroe romantico byroniano. È vero che il ruolo è piuttosto ingrato, tra nostalgia e lamento. Ha nostalgia di Venezia, nostalgia di casa e famiglia, passa il tempo soprattutto in carcere e si difende rivendicando la sua innocenza, senza successo, poi muore immediatamente sulla via dell'esilio. Né Byron né Piave gli diedero molto spazio per agire : la messa sembrava detta fin dall'inizio.In questo contesto Pop è bravo.
Maria Katzarava ha affrontato il terribile ruolo di Lucrezia Contarini. Ha quasi tutte le note e ne esce con pregi e difetti : una tecnica problematica con il suo modo di prendere gli acuti da "sotto" per sostenere e garantire un effetto crescendo che non è molto efficace, perché gli acuti si stringono. Inoltre, ci vuole molto di più per incarnare il personaggio, non ha il carisma desiderato e non riesce ad imporsi sul palcoscenico. Non ha l'espressività richiesta, né il senso del colore richiesto per un ruolo del genere. Diciamo che non ha ancora i mezzi richiesti per affrontare il ruolo con la profondità e la raffinatezza necessarie.
Solo Vladimir Stoyanov, con una acconciatura da Verdi vecchio (buona parte del coro sembra avere la stessa acconciatura, come se avessimo un Verdi di tutte le età in scena – sarà un'idea della regia?), è riuscito ad imporsi, incarnando il personaggio e recitando in modo veramente impegnato. Bellissima dizione e magnifico fraseggio danno alle parole e all'espressione tutta la loro importanza, e rendono la parte molto commovente. Ci troviamo davanti ad una vera dimostrazione dell'arte del cantante, che da sola rende viva una rappresentazione piuttosto noiosa. Verdi non lascia sempre ai suoi Dogi, genovesi (Boccanegra) o veneziani (Foscari) che siano, la grazia della felicità, ma almeno dà loro un vero ruolo, una personalità commovente e forte, quello che mancava al resto del cast, e alla sera nel suo insieme.