La messa in scena è scarna, ma solo in apparenza : le tre grandi pareti nude, prive di aperture, consentono alle luci una completa trasformazione degli spazi fisici ed emotivi : dall’arancio del primo atto che ripete il tappeto di foglie autunnali sul pavimento, alle brume nebbiose del secondo atto rischiarate da un azzurro gelido, al bianco destabilizzante del terzo atto. L’attrezzeria è limitata ai pochi mobili funzionali alla narrazione : tavoli e sedie. Ma, anche questi, assai significativi : le sedie spaiate di casa Larina a paragone con la teoria di poltrone in velluto tutte uguali nel salone del Principe Gremin, ad esempio. I costumi situano l’azione nell’Ottocento, come vuole il libretto, e completano il quadro creato da luci e scenografia : il contrasto tra campagna e città è immediatamente evidente nelle stoffe. C’è una circolarità nella rappresentazione e significativamente nelle vicende umane, suggerisce il regista : durante la sinfonia Onegin è seduto in poltrona con una lettera in mano come nel finale e il racconto di quanto accaduto non consente di cambiare la condizione di alienata solitudine e irrimediabile infelicità.
La regia di Carsen è immediata e la narrazione cattura l’attenzione ; non ci si sofferma troppo sui dettagli “russi” della storia ma ci si concentra sui personaggi e sui loro legami, ponendo l’accento sul significato del romanzo in versi di Pushkin, che la musica di Chajkovskij ha sfrondato da certi eccessi romantici per renderlo universale e dunque contemporaneo anche a noi : l’incapacità di realizzare la propria vita, la nostalgia per quello che non è stato, gli amori infelici, gli affetti non espressi, la felicità sfuggita di mano e non più recuperabile. Il sentimento dominante è la nostalgia, una struggente nostalgia amplificata da un senso di attesa che si accumula per tutta l’opera fino al finale che invece non consente alcuna diversa possibilità : l’anelito alla vita che si scontra con l’incapacità oblomoviana dei protagonisti di vivere, i sentimenti destinati irrimediabilmente a essere disillusi, il senso cechoviano dell’attesa nella certezza dell’inutilità dell’attesa stessa. Anziché tre atti, la messa in scena prevede due parti con un solo intervallo dopo il primo atto ; l’assenza di una cesura tra la scena del duello e il ballo assume straordinaria efficacia : la polonaise attacca sul cadavere di Lenskij con un attonito, allibito Onegin che viene vestito dai valletti per il ballo, un contrasto stridente e sconvolgente, la vita che segue la morte, la morte che condiziona la vita, la presa di coscienza delle azioni che distruggono le vite.
Il cast è ottimo dal punto di vista vocale e attoriale, elemento non secondario in un allestimento con una componente registica così marcata e determinante. Maria Bayankina è Tat’jana, la vera protagonista dell’opera, molto bella e fisicamente vicina al personaggio, a cui aderisce con forza sia nella prima parte, nel contesto della spontanea semplicità del villaggio, sia nella seconda, nel contegno altero che assume in città ; la voce è morbida e piena, fresca e ricca di colori, capace di affrontare senza tentennamenti la scena famosa e centrale della lettera. In particolare si è apprezzata la capacità del soprano di esprimere la successione delle emozioni e degli stati d’animo : romanticamente sognante, appassionata innamorata e piena di speranza, incredula di fronte alla negazione di Onegin di un amore così totale, disillusa e rassegnata, sofferente e altera, matura in scelte coerenti ed eticamente condivisibili (un matrimonio “piano” e senza tumulti, basato su rispetto e affetto condivisi).
Markus Werba è un Onegin ideale per sembianze e movenze : i capelli lunghi e morbidi da dandy, il mento superbamente in alto (quasi infastidito da chi lo circonda), il contegno presuntuoso che lo rende immediatamente antipatico ; la voce brunita è perfetta per il ruolo e sapientemente usata. Saimir Pirgu è uno splendido, elegante e nobile Lenskij dallo sguardo vivace e aperto, dal contegno giovanile ed esuberante e dalla voce estesa e intensa : la carriera in ruoli prima mozartiani e poi verdiani ha giovato al cantante, oggi notevole da ogni punto di vista. Giusti i ruoli di contorno che completano il quadro in cui si muovono i protagonisti : la Ol’ga antitetica rispetto a Tat’jana di Yulia Matochkina, la Larina di Irida Dragoti in cerca di affrancamento sociale, la materna balia Filipp’evna di Anna Viktorova, l’imponente e solido Gremin di John Relyea, il patetico poeta Triquet di Andrea Giovannini, lo Zareckij di Andrii Ganchuk e il Capitano di Arturo Espinosa. Eccellente la prova del coro diretto da Roberto Gabbiani, chiamato a uno sforzo interpretativo di prim’ordine. Con loro i solisti del corpo di ballo del teatro dell’Opera : Roberto Bozza, Micaela Grasso, Cristina Saso, Andrea D’Ottavio, Paolo Gentile.
Il Maestro James Conlon mostra un grande affiatamento con l’orchestra e il risultato è ben oltre le aspettative. La direzione imprime alla partitura un ritmo incalzante e il succedere degli eventi lascia gli spettatori senza respiro ; il suono è denso, corposo, quasi materico, eppure leggero, e si fonde con il canto in modo naturale.
Un pubblico attento e partecipe ha seguito l’opera con numerosi applausi a scena aperta e un trionfo nel finale ; la recita è iniziata con la dedica a Mirella Freni, protagonista dell’opera nella sua ultima rappresentazione al Costanzi nel 2001.