Opera di Firenze 

 Giuseppe Verdi (1813–1901) 

“DON CARLO”
Opera in quattro atti.
Libretto di Joseph Méry e Camille du Locle,
versione italiana di Achille de Lauzières

Musica di Giuseppe Verdi

Don Carlo ROBERTO ARONICA
Elisabetta di Valois JULIANNA DI GIACOMO
Filippo II DMITRY BELOSELSKIY
Rodrigo, marchese di Posa MASSIMO CAVALLETTI
Principessa Eboli GIOVANNA CASOLLA
Il Grande Inquisitore ERIC HALFVARSON
Un frate OLEG TSYBULKO
Una voce dal cielo LAURA GIORDANO
Tebaldo SIMONA DI CAPUA
Il conte di Lerma ENRICO COSSUTTA
Un araldo reale SAVERIO FIORE

Deputati fiamminghi TOMMASO BAREA, BENJAMIN CHO, QIANMING DOU, MIN KIM, CHANYOUNG LEE, DARIO SHIKMIRI

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Giancarlo Del Monaco
Regista associata Sarah Schinassi
Scene Carlo Centolavigna
Costumi Jesús Ruiz
Luci Wolfgang von Zoubek 

Opera di Firenze, 11 maggio 2017

La direzione ha avuto momenti altissimi, ma la modestia della compagnia di canto e dell'allestimento scenico ha impedito a Zubin Mehta di dare l'addio a Firenze con il grande spettacolo che avrebbe meritato.

Dopo trentadue anni Zubin Mehta ha lasciato la direzione dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, ma non per una sua libera scelta, e per l'addio ha voluto il Don Carlo, l'opera che meglio corrisponde alla sua visione crepuscolare e dolente di Verdi in questa fase della sua carriera. A Firenze l'aveva già diretto due volte negli ultimi anni, nel 2004 e nel 2013, ma la seconda volta in forma di concerto, perché difficoltà economiche avevano costretto a cancellare la prevista regia di Luca Ronconi. Si può quindi pensare che cercasse ora una sorta di risarcimento di quel Don Carlo realizzato solo parzialmente. Invece anche questa volta ha avuto un Don Carlo a metà, per così dire, perché da una parte c'era la sua splendida direzione e dall'altra una compagnia di canto e un allestimento scenico piuttosto modesti.

Mehta inoltre si è trovato in qualche modo obbligato a mettere sul leggio la versione  del Don Carlo in quattro atti – quella andata in scena alla Scala nel 1884 – mentre avrebbe preferito la versione di Modena del 1886 in cinque atti. È stato egli stesso a rivelare che questa scelta era stata imposta dal protagonista previsto in un primo momento, Fabio Sartori, che poi ha dato forfait pochi giorni prima dell'inizio delle prove, quand'ormai era impossibile ritornare alla versione in cinque atti. La scelta tra le varie versioni del Don Carlo è una vexata quaestio. Tutte sono legittime perché sono state firmate da Verdi stesso, ma – considerando che il pubblico italiano non sembra ancora pronto per l'originale in francese – la versione preferibile è indubbiamente quella in cinque atti, perché salva l'atto di Fontainebleau, quel breve momento di serenità e di speranza che fa avvertire ancora più acutamente la nostalgia di Carlo ed Elisabetta per una vita diversa, appena intravista e subito svanita.

Ma anche gli altri protagonisti – Eboli, Posa e lo stesso Filippo – sono nella situazione tragica di vivere una vita che non è quella che vorrebbero. È questo che s'intende quando si dice che questa è un'opera "politica", dove le grandi passioni tipiche del teatro di Verdi non mancano, ma i personaggi le reprimono e le nascondono, perché sono sottomessi alle regole della corte spagnola, al controllo dell'inquisizione e ai doveri connessi ai loro ruoli. Le loro psicologie si adeguano quindi a questo mondo oppressivo e minaccioso e diventano sottili, inafferrabili, anche contorte. L'azione si svolge soprattutto nella penombra dei conventi, delle chiese, delle prigioni e dell'Escurial, non alla luce del sole della Spagna, e a Mehta non sfuggono queste atmosfere tenebrose. Resterà impresso nella memoria il coro dei frati nella prima scena, che per Mehta è come un Requiem che imprime su tutta l'opera un senso di morte. Poco dopo, quando Filippo II fa la sua prima apparizione senza proferire una sola parola, i colori cupi e minacciosi dell'orchestra di Mehta erano l'immagine sonora della forza inflessibile del potere. Ma è nei momenti di sofferenza, di tristezza e di solitudine che la sua direzione è stata sublime : difficilmente superabile l'introduzione alla grande scena di Filippo all'inizio del terzo atto. Ma ha reso in modo magistrale tutti i colori del Don Carlo, che, come è proprio del grand opéra, passa attraverso un'ampia gamma di situazioni e atmosfere contrastanti : da citare particolarmente la sensualità dell'orchestra nella "Canzone del velo" di Eboli, la leggerezza mondana della conversazione della stessa Eboli e di Posa sulle mode parigine e la grandiosità della scena dell'auto da fè. Insomma una direzione splendida, cui si perdonano volentieri qualche zona un po' grigia e alcuni piccole sfasature fra palcoscenico e buca dell'orchestra. L'ottima prestazione dell'orchestra e del coro erano anche un ringraziamento al Maestro dopo tanti anni di preziosa collaborazione.

Come si è già accennato, il resto non fu all'altezza di Mehta. Nel complesso i cantanti sarebbero stati al loro posto in una recita di routine, non nello spettacolo di punta di quello che fu un grande festival. Bisogna a malincuore riconoscere che anche Mehta ha avuto in questo una parte di responsabilità, perché da quelle voci, sebbene non eccezionali, si sarebbe potuto comunque ricavare di più con un lavoro di preparazione e concertazione che evidentemente è mancato, non sappiamo se per scarsità di prove o per altre ragioni. Chiamato con poco preavviso a sostituire Sartori in un ruolo che non aveva mai interpretato negli ultimi anni, Roberto Aronica ha evidentemente avuto tempo per "mettere in gola" la parte di Carlo ma non per approfondirne l'interpretazione. Il risultato è stato che non sotto l'aspetto puramente vocale ha avuto difficoltà, ma come interprete è stato generico, per non dire completamente assente, ricorrendo, fin dalla sua sognante e nostalgica aria d'entrata, a toni stentorei totalmente estranei al debole e tormentato Carlo.

Massimo Cavalletti all'inizio, nel suo duetto col tenore nel primo atto, si è fatto contagiare da quest'approccio superficiale : d'altronde è scientificamente dimostrato che, se un cantante la mette sul piano muscolare, i suoi colleghi non resistono alla tentazione di dimostrare che anche loro non sono da meno. In seguito, puntando sulle sue reali qualità, che sono di baritono lirico più che drammatico, e ricorrendo ad un fraseggio più vario e flessibile, ha adattato meglio la sua interpretazione ad un personaggio nobile e cavalleresco come Posa.

Dmitry Beloselskiy ha confermato di essere dotato di una voce di prima qualità, ampia e ben timbrata, ma anch'egli è un interprete piuttosto debole e non ha espresso il dolore che impregna la tormentata regalità di Filippo II. Se la voce del basso ucraino ha ancora intatte le qualità della giovinezza, quella del veterano Eric Halfvarson reca tutti i segni della vecchiaia, con un registro grave tenebroso e acuti tremuli : paradossalmente con questi mezzi e con un po' di astuzia avrebbe potuto ancora rendere efficacemente l'Inquisitore, vecchissimo e debole ma allo stesso tempo terribile e minaccioso, invece ha preferito ricorrere ad una specie di Sprechgesang gridato, con intonazione e ritmo approssimativi.

Complessivamente le voci femminili sono state migliori. Pur senza brillare particolarmente, Julianna Di Giacomo è stata una Elisabetta regale e allo stesso tempo malinconica, raggiungendo momenti d'intensa espressività nella sua grande aria dell'ultimo atto. Paradossalmente l'interprete più in sintonia con Mehta è stata Giovanna Casolla, sebbene fosse giunta a Firenze poco prima dell'inizio della recita per sostituire l'indisposta Ekaterina Gubanova. A parte un comprensibile imbarazzo ad inserirsi in una regia che non conosceva, ha reso perfettamente il carattere di Eboli, con una voce sorprendentemente integra e ricca di colori per una cantante della sua età, riscuotendo un meritatissimo successo personale. Adeguati gli interpreti dei ruoli minori, tra cui meritano una particolare citazione il Frate di Oleg Tsybulko e la Voce dal cielo di Laura Giordano.

Di questi tempi la regia si prende spesso il maggior spazio delle recensioni, ma in questo caso basteranno poche righe. L'allestimento scenico era stato preso in affitto da alcuni teatri della provincia spagnola e quella era la sua giusta collocazione, non un grande festival quel è stato e deve tornare ad essere il Maggio. La scena unica di Carlo Centolavigna – un parallelepipedo ricoperto da antiche carte geografiche raffiguranti i domini di Filippo II – dava indubbiamente la sensazione dell'ambiente chiuso e soffocante della corte spagnola, ma alla lunga, sebbene si aprisse talvolta sul fondo per lasciare intravedere gli alberi dei giardini o la cattedrale, risultò monotona e inadeguata alla varietà delle situazioni del Don Carlo. La regia di Giancarlo Del Monaco era sostanzialmente tradizionale e inoffensiva, tranne alcune libertà non necessarie. Gli si può perdonare l'aver sostituito il finale schilleriano che fa sparire l'infante nella tomba di Carlo V con l'uccisione del figlio da parte del padre, gesto terribile ma troppo melodrammatico, ma non si può giustificare la pantomima di Eboli che distraeva inutilmente l'attenzione durante l'introduzione orchestrale alla grande scena di Filippo II, il momento più alto dell'opera, diretto in modo sublime da Mehta.

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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.
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