Gaetano Donizetti (1797–1848)
Roberto Devereux o il conte d'Essex (1837)
Tragedia lirica in tre atti
Libretto di Salvadore Cammarano da Elisabeth d'Angleterre (1829) di Jacques François Ancelot
Prima esecuzione : Napoli, Real Teatro di San Carlo, 28 ottobre 1837
Edizione critica a cura di Julia Lockhart © Casa Ricordi, Milano con la collaborazione e il contributo del Comune di Bergamo e della Fondazione Teatro Donizetti

Direttore Riccardo Frizza
Regia Stephen Langridge
Scene e costumi Katie Davenport
Luci Peter Mumford
Regia Animazione Pupazzo Poppy Franziska
Assistente alla regia Katerina Petsatodi

Elisabetta Jessica Pratt
Il duca di Nottingham Simone Piazzola
Sara Raffaella Lupinacci
Roberto Devereux John Osborn
Lord Cecil David Astorga
Sir Gualtiero Raleigh Ignas Melnikas*
Un famigliare di Nottingham e Un Cavaliere Fulvio Valenti

*Allievo della Bottega Donizetti

Mimo Luca Maino
Burattinai per Animazione Pupazzo Noemi Giannico, Matteo Moglianesi

Orchestra Donizetti Opera
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del Coro Salvo Sgrò

Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti in coproduzione con il Teatro Sociale di Rovigo

Bergamo,Teatro Donizetti, venerdì 15 novembre 2024, ore 20.

Questa è la decima edizione del Festival Donizetti e l'ultima sotto la direzione di Francesco Micheli, che ha deciso di esplorare altri orizzonti. Il suo lascito è un'impresa originale, gioiosa e simpatica, che vorremmo vedere saldamente inserita nel panorama musicale italiano. Il festival è frequentato da un pubblico internazionale, che offre agli europei (soprattutto inglesi, tedeschi e francesi) la possibilità di esplorare la città di Bergamo, uno dei gioielli del Nord Italia. È anche un'occasione per scoprire Donizetti e il suo maestro Giovanni Simone Mayr, di cui alcune opere sono state eseguite nel Festival.
Come sempre, sono tre le opere, quest'anno due piuttosto famose, Roberto Devereux e Don Pasquale, e una del tutto sconosciuta, Zoraida di Granata, l'opera dell'anno da scoprire, riservata al piccolo Teatro Sociale, nel centro di Città alta, la città alta brulicante di turisti, mentre le altre due sono presentate al Teatro Donizetti, il bellissimo teatro della città bassa.

Roberto Devereux non è la più rappresentata delle tre opere della “cosiddetta” trilogia Tudor, è l'opera del crepuscolo, e per l'occasione il Festival Donizetti ha messo insieme un cast lusinghiero, Jessica Pratt, John Osborn, Simone Piazzola, Raffaella Lupinacci, sotto la direzione del e direttore musicale dell'evento, Riccardo Frizza, specialista di Donizetti e la regia di Stephen Langridge, che ha lavorato in molti teatri inglesi e scandinavi ed è attualmente direttore del Festival di Glyndebourne e prolifico regista teatrale.
Il risultato non è stato all'altezza delle aspettative, anche se è stato un bel successo, segno che questo repertorio è sempre difficile da portare al trionfo, come ha dimostrato la recente “trilogia Tudor” di Ginevra, di cui Devereux non è stata la produzione meno riuscita. Infatti oltre l'interpretazione vocale, si deve anche tenere conto del modo in cui questa musica viene tradotta all'orchestra per dare un colore particolare all'insieme e la questione non indifferente della regia. Insomma, un'alchimia necessaria che qui non si è emulsionata.

Panoramica (Atto II) con il gioco dell'impiccato…

Come abbiamo visto qualche mese fa a Ginevra con la produzione di Mariame Clément della “Trilogia dei Tudor”, ma anche in altre occasioni : è difficile mettere in scena le opere di riferimento del Belcanto. In primo luogo, perché le aspettative del pubblico non sono mai focalizzate sulla messa in scena, e raramente sulla direzione musicale, ma essenzialmente sulla performance vocale dei protagonisti.
Si attendono gli effetti pirotecnici che manderanno gli amanti della voce al Settimo Cielo. Ma la Gencer, la Sills, la Caballé, la Sutherland e, più recentemente, la Gruberova, che ha fatto di Roberto Devereux uno dei suoi cavalli di battaglia, non sono più tra noi o, come la grande Mariella Devia, non sono più in attività. E non c'è ancora una leggenda vocale che possa succedere loro. Dopo una leggendaria Bolena a Vienna e qualche altra produzione, si poteva pensare che la Netrebko potesse essere una di loro, ma il repertorio della cantante si è ampliato (mentre si ampliava il volume della sua voce), tra qualche “grande” Verdi e una chiara propensione per Puccini e il verismo, Anna Netrebko non sarà la nuova regina di Donizetti.
In attesa della discesa dal Cielo della futura Diva da adorare, si deve programmare e, in mancanza di tordi mangiamo merli.

Come ho spesso deplorato, la direzione musicale di questo repertorio manca spesso di una chiara caratterizzazione. Non c'è dubbio che Pesaro abbia fatto nascere (o rinascere) una tradizione rossiniana, e di recente abbiamo ascoltato alcuni eccellenti direttori che hanno messo in luce questo repertorio, a partire naturalmente da Michele Mariotti, e fuori Pesaro, Stefano Montanari e Gianluca Capuano hanno mostrato le sue radici barocche o settecentesche.

Per Donizetti e Bellini, a cavallo tra Rossini e Verdi, le cose sono un po' diverse. La prassi del momento è quella di dirigere (soprattutto Donizetti) non secondo le radici di questa musica, ma secondo il suo esito futuro : nel migliore dei casi come Verdi, nel peggiore come Puccini, e così la musica operistica italiana dal 1835 in poi si tinge spesso di verismo, sia a livello orchestrale (il più delle volte, inoltre, le produzioni sono affidate a direttori tuttofare di secondo piano) sia a livello vocale : lo si nota soprattutto in certi tenori più furiosi che stilisti.

Così, tra dibattiti stilistici sul modo di dirigere e l'attuale assenza di una vera stilista del belcanto (Sondra Radvanovsky è ormai al tramonto della sua bella carriera), è difficile trovare una autentica soddisfazione musicale, anche se ci sono grandi mezzosoprani (Berzhanskaya), grandi tenori (Osborn o Spyres) e baritoni esemplari (Alaimo), ma pochi soprani, la linfa vitale del Belcanto.
In un repertorio in cui la messa in scena non è (a differenza di altri repertori) un fattore importante nelle aspettative dello spettatore, l'assenza di voci di riferimento significa che, paradossalmente, dovremo prestare alla regia un po' più di attenzione.

Così il Festival Donizetti, sotto l'energica guida di Francesco Micheli, ha cercato negli ultimi dieci anni di variare l'approccio alla scena, di chiamare nomi sconosciuti in Italia, di proporre spettacoli spesso originali o inaspettati, e questo è un punto importante da sottolineare in un panorama operistico italiano in cui la messa in scena non è propriamente al centro dell'interesse del pubblico. Una delle caratteristiche del Festival Donizetti è che, con diversi gradi di successo, ha sempre avuto una grande cura nell'approccio al palcoscenico. Si pensi, ad esempio, a L'Ange de Nisida, uno dei momenti salienti degli ultimi dieci anni.

Jessica Pratt (Elisabetta)

Sulla carta, la produzione di Roberto Devereux offre un cast di tutto rispetto, con Jessica Pratt nel temibile ruolo di Elisabetta e John Osborn in quello di Roberto, e in buca il maestro Riccardo Frizza, donizettiano DOC, Il regista è il britannico Stephen Langridge, che conosce (per forza di cose) il mondo elisabettiano e ha lavorato in molti teatri, oltre a dirigere strutture di pregio come il Festival di Glyndebourne. All'apparenza, una serie di belle promesse.
Eppure qualcosa è andato storto in un'opera che, delle tre della trilogia Tudor, è la più crepuscolare, la più difficile e anche la meno rappresentata. Anche se il titolo è Roberto Devereux, il vero soggetto è Elisabetta alla fine del suo regno e della sua vita, disperatamente sola e più o meno manipolata da chi la circonda. La trama si svolge nel 1601 e morì nel 1603. Questa è l'angolazione scelta dal regista, che concentra la sua messa in scena sulla morte, giocando con scheletri e teschi, fino al costume della regina, come se fosse la sua unica ossessione.

Il palcoscenico è circondato da una cornice luminosa, come se stessimo assistendo a una sorta di tableau vivant, con elementi fissi tra cui un tavolo di plastica trasparente alla Philippe Starck a sinistra del proscenio, ricoperto di vari oggetti feticcio, una specie di vanitas, di natura morta (appunto) a cui si aggiungeranno dopo l'intervallo fiori e teschi sul pavimento e su tutta l'ampiezza del proscenio, come “ex-voto” a una donna che esce dal mondo, una dea già in via di divinizzazione… Un approccio chiaramente simbolico.
Un simbolismo che si ritrova anche nel gioco di colori, con due elementi violentemente rossi in evidenza : il letto monumentale di Sara, che apre lo spettacolo e che rimarrà uno degli elementi di riferimento, e il trono di Elisabetta, in piedi o reclinato (alla fine).

Letto e trono

Il letto – inevitabilmente adultero e colpevole – di fronte al trono è un simbolo che dice molto della mente della regina e della sua ossessione… o della sottile (?) e raffinata (?) idea del regista.
Per il resto, pareti nere dietro le quali si nasconde il coro (la corte) che commenta le azioni della Regina, una corte vestita di nero – sembra uscita da un quadro di Franz Hals, quasi già in lutto, che per di più si passa teschi di mano in mano quando non ha altro da fare…

La corte

Questo è tutto per la scenografia disegnata da Katie Davenport, che ha disegnato anche i costumi d'epoca : Elisabetta in un abito con altri teschi stampati sopra che esprime la sua ossessione per la morte e Sara in un abito più corto (segno di giovinezza?) che mostra chiaramente che è incinta del marito, il Duca di Nottingham.

Due elementi rimangono abbastanza interessanti : i cambiamenti segnati dall'illuminazione del palcoscenico, che acceca lo spettatore, evidenziando le transizioni e l'andamento del dramma, e le poesie di Devereux che vengono lette, ricordandoci che Devereux era anche un poeta, come molti aristocratici dell'epoca, un modo per dirci che un poeta non può essere del tutto il traditore che il dramma descrive.

Devereux poeta

Ciononostante, il tutto rimane piuttosto pesante, come il gioco dell'impiccato segnato sul muro con l'impiccato e la scritta “Roberto” sotto la forca disegnata al momento del processo. Un'idea inutile, persino ridicola, che poteva esserci risparmiata.
Un'altra idea che ci poteva essere risparmiata è il fantoccio scheletrico della Regina che balla con un bel giovane, ancora una volta esempio di questo simbolismo pesante e che continuerà insistentemente a trascinare la Regina alla fine del suo monologo conclusivo in quella che si presume essere la sua tomba.

Ballando con la Morte

La mort, toujours la mort (La morte, sempre la morte) diceva Carmen, con un vero senso del tragico e non, come qui, del ridicolo e del mal realizzato.

La scena tra Nottingham e Sara, quando lui la accusa di adulterio, è mal impostata, i movimenti sono meccanici con gesti convenzionali, le entrate e le uscite sono approssimative, per non parlare in altri momenti dei movimenti del coro che passa e ripassa sullo sfondo, ci si chiede perché, se non per dimostrare che lo spazio viene riempito.

Raffaela Lupinacci (Sara), Jessica Pratt (Elisabetta) … e il letto

Infatti, non c'è lavoro sui personaggi abbandonati a se stessi in un'opera che guarda ad alcuni di essi in modo abbastanza sottile (Elisabetta, Roberto, ma anche Nottingham). È un'opera sulle apparenze ingannevoli. Non è mai chiaro se Roberto abbia tradito o meno, se sia stato vittima di un intrigo di corte, se sia stato l'amante della Regina o se l'amore della Regina sia rimasto platonico. E Sara (personaggio inventato) e Roberto, promessi l'uno all'altra, furono separati dalla partenza di Roberto, così che Sara fu costretta a sposare Nottingham, probabilmente senza aver mai toccato Roberto. Accuse vere o false si mescolano alle fantasie degli uni e degli altri, ai meandri della sofferenza e finiscono in tragedia senza che sia successo granché.

John Osborn (Roberto), Simone Piazzola (Nottingham)

Nessuna di queste sottigliezze è mai accennata ; ci troviamo in mezzo a un duca molto simpatico diventato molto cattivo, alla regina devastata dall'amore e dalla solitudine, a un Roberto un po' smarrito che non riusciamo a collocare o a descrivere, e a una donna innamorata ma non adultera e, per di più, incinta (in questa produzione).

Così, quando il fatale letto rosso viene appeso all'inizio del secondo atto, è come un letto di Damocle, più temuto che reale, eppure tutto conduce al dramma.
È tutto abbozzato, non sottile, non interessante e, soprattutto, non realmente elaborato o pensato. Va bene fare appello a Shakespeare e ad Amleto con tutti quei teschi vaganti, ma in realtà è solo vuoto e vanità.

Il cast

La messa in scena, approssimativa e priva di fantasia, non riesce a generare emozioni. Eppure l'emozione è uno dei punti di forza di Roberto Devereux, con tre personaggi un po' smarriti : Elisabetta alla fine della sua vita, Roberto, che è tornato e non sa che atteggiamento assumere, e Sara, in bilico tra la fedeltà alla regina e al marito e il suo amore. Infine, Nottingham inizia come strenuo difensore di Roberto e finisce per essere il suo altrettanto strenuo nemico quando scopre quella che crede essere la sua disgrazia. Roberto Devereux non è un'opera di voci neutre o indifferenti o di gratuite esibizioni acrobatiche di gole in vetrina : è una vera tragedia lirica.

Come spesso accade a Bergamo, i ruoli di sostegno sono ben interpretati, talvolta da allievi della Bottega Donizetti, come Ignas Melnikas (Sir Gualtiero Raleigh), Fulvio Valenti come cavaliere o membro dell'entourage di Nottingham, e soprattutto l'eccellente Davis Astorga, dal timbro chiaro, che cominciamo a vedere in parecchi teatri (qui Lord Cecil, in rappresentanza dello Stato).

Raffaella Lupinacci (Sara)

Raffaella Lupinacci affronta per la prima volta il ruolo di Sara e il suo canto intenso e potente, con la sua voce scura e il suo impegno sul palcoscenico, ha dato vita a una vera e propria emozione. Ci si chiede a lungo perché aggiungere al suo ruolo il fatto che sia incinta del duca di Nottingham, il che rende il suo costume ancora meno appropriato. Malgrado tutto, è senza dubbio l'unica (con Osborn)  a regalarci una vera emozione.

Simone Piazzola (Nottingham)

Simone Piazzola delude nel ruolo di Nottingham, con un canto poco raffinato che non riesce a trasmettere il cambiamento psicologico del personaggio (da buono a (molto) cattivo), un'emissione un po' scomposta, un timbro poco attraente, una dizione poco chiara, un modo di proiettare tutto senza mai differenziare : Insomma, un canto senza alcuna sottigliezza, in un ruolo che richiede molto più di quanto si possa pensare : che sia amico o nemico di Roberto, canta allo stesso modo, senza alcuno sforzo di espressione o colore.

John Osborn (Roberto Devereux)

John Osborn nel ruolo di Roberto, invece, mostra grande colore e cura nell'espressione. Non è un attore eccezionale, ma il suo canto è molto attento a ogni parola, con ottimi acuti e un gioco di colori ed espressioni particolarmente sottile. Il suo monologo in prigione è eccezionale : una vera lezione di “belcanto” in cui l'arte delle sfumature e la cura del controllo del suono sono esemplari e creano grande emozione. Eccezionale.

Jessica Pratt (Elisabetta)

Come Raffaella Lupinacci in Sara, Jessica Pratt cantava Elisabetta per la prima volta. La difficoltà del ruolo è ben nota, così come le qualità intrinseche del soprano britannico, ormai completamente adottato dall'Italia. La sua dizione è impeccabile, le sue parole sono accuratamente cesellate e i suoi acuti sono facili da cantare, anche se gli acuti non sono omogenei come vorremmo e a volte suonano troppo metallici o stridenti. Si poteva temere qualche debolezza nel registro centrale, dato che il ruolo è temibile per i suoi salti di registro, soprattutto nel finale quando il personaggio non sa bene da che parte stare, ma l'insieme è tecnicamente solido, tanto solido che Jessica Pratt viene accolta con un grande trionfo. La messa in scena non sempre l'aiuta (il pupazzo scheletrico che l'accompagna è ridicolo), ma il gioco con la parrucca che sottolinea il prodilo dell’intero personaggio e che lei si strappa alla fine è molto efficace.
Jessica Pratt non è un'attrice, ma canta con una tecnica ferrea, a volte a scapito dell'emozione che si intravede, ma che per i nostri gusti non raggiunge l'espressività diretta della Lupinacci. Elsa Dreisig, che non ha per nulla la voce adatta al ruolo e sulla quale avevamo molte riserve, è stata molto più impegnata e coinvolgente nell'Elisabetta di Devereux a Ginevra. Per me la Pratt è prima di tutto una cantante da grande performance vocale, ma non riesce mai a entusiasmarmi ed è un peccato perché la sua tecnica è incredibile.

Jessica Pratt (Elisabetta)

La direzione musicale

Le forze corali, il Coro dell'Accademia del Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò, nonostante la mancanza di una messa in scena e di movimenti ben gestiti quando ci sono, sono all'altezza della situazione e danno un'ottima prestazione, mentre in buca Riccardo Frizza dirige l'Orchestra dell'Opera Donizetti con il consueto piglio sicuro.

Nell'interessante intervista contenuta nel programma di sala, egli afferma con sicurezza che il Roberto Devereux è uno dei capolavori di Donizetti, superiore alle altre opere della trilogia Tudor per il modo in cui si libera dai soliti schemi per dare maggiore importanza al dramma. È forse per questo che Frizza ha scelto l'edizione originale per il San Carlo di Napoli del 1837 piuttosto che quella per gli “Italiens” di Parigi (1838), la cui principale differenza è l'aggiunta dell'ouverture con dentro  il God save the Queen. L'edizione di Napoli inizia senza ouverture, in medias res, una scelta drammaturgica importante e forse più “moderna” della più tradizionale ouverture.

Roberto Devereux rappresenta quindi un cambio di rotta : è l'ultima opera scritta per Napoli, prima della partenza per Parigi, e allo stesso tempo la fine del ciclo dei Tudor, incentrato sulla figura di Elisabetta, alla fine del suo regno, che vede sfuggire la vita, l'amore e il potere, dopo essere stata la spietata regina di Maria Stuarda. Essa è più isolata e impotente che mai. È quindi una figura cupa, con una voce forte e un tono insolito. Non sorprende che il ruolo sia piaciuto a Leyla Gencer, il cui timbro era scuro e il colore piuttosto drammatico.

Riccardo Frizza, che è uno dei migliori conoscitori dell'opera di Donizetti, offre una visione drammatica, con lineamenti precisi, sostenendo efficacemente le voci e prestando molta attenzione alle parti più recitate, in modo da far sentire il testo. C'è un vero desiderio di respirare, di lavorare sui ritmi, sulle pause di tempo e sulle variazioni di colore. Tutto questo è particolarmente gradito.
Per i miei gusti, avrei forse preferito un approccio più chiaro, meno “sinfonico”, che alleggerisse il carico e rendesse più udibili le dinamiche, un modo più singolare di affrontare il colore dell'opera e il carattere del lavoro del compositore, che Frizza colloca giustamente in una linea che prende le mosse dalla Semiramide di Rossini, ma in cui si vorrebbe vedere emergere con più chiarezza alcune sezioni dell'orchestra, così da preannunciare il cambio di direzione nel modo di comporre di Donizetti.
Così, pur riconoscendo l'alta qualità dell'approccio e la cura nell'evidenziare i tratti originali dell'opera, mi è mancato un tocco di singolarità che caratterizzasse ancora meglio l'insieme ; c'è a volte qualcosa di ancora troppo brillante che forse non trasmette a sufficienza la graduale discesa della Regina verso l'oscurità e la morte.
Un approccio solido, particolarmente attento alla precisione, tecnicamente ineccepibile con un'orchestra particolarmente attenta e precisa, ma che nonostante tutto non sempre riesce a farmi “decollare”.

Nel complesso, una produzione appesantita da una messa in scena che Stephen Langridge descrive come “sicuramente contemporanea”, ma ambientata in un universo elisabettiano inventato. In realtà, non c'è un percorso chiaro per quest'opera, e alcune scelte sono discutibili, persino ridicole. In questo caso, una produzione “storicista” con un vero lavoro sui personaggi e non tante approssimazioni sarebbe stata preferibile a una costruzione simbolica tanto pretenziosa quanto inutile.
È un peccato, perché la messa in scena finisce per appesantire l'insieme, con costumi poco aderenti, movimenti ridicoli e scene mal costruite che lasciano i cantanti un po' soli e senza sostegno. Questo è deplorevole. Tutto era alchemicamente pronto, ma non c'è stata emulsione e dunque poca emozione.

Il letto di Damocle

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