Programmando due opere composte a distanza di soli cinque anni una dall'altra, ma orientate in maniera opposta rispetto allo Stile classico in dissoluzione – le 33 Variazioni in do maggiore su un valzer di Diabelli di Beethoven (1823) e la Sonata D. 960 dell'anno della morte di Schubert (1828) -, è tornato il 15 ottobre a Messina il pianista tedesco Alexander Lonquich, festeggiato dal pubblico che ha affollato il concerto di inaugurazione per la stagione 2018–2019 della Filarmonica Laudamo. Tra un brano e l'altro passa appena una manciata di anni – e passa per giunta nella stessa città, Vienna, che deve dare l'addio uno dopo l'altro ai due sommi musicisti -, ma la svolta stilistica è netta : le strutture espressive usate da Schubert nel 1828 non hanno più la feroce concisione di quelle beethoveniane, e i suoi archi melodici si distendono con una floridezza che quelli dell'autore delle Diabelli non avevano mai conosciuto. Le tre ultime sonate di Schubert, pubblicate postume, costituiscono infatti un documento impressionante di come il superamento dei principi classici di strutturazione della forma, della logica essenzialmente dialettica dello stile classico viennese, possa consentire all'autore della Sonata D. 960 in si bemolle maggiore di cercare e ottenere tensione in modo affatto diverso dal maestro di Bonn – pure tanto ammirato. Se la tensione per Beethoven è essenzialmente di natura armonica e dialettica, per Schubert ha invece a che fare – già romanticamente – con il chiaroscuro emotivo, con le intermittenze del cuore, con i simboli dell'inconscio. A Lonquich, però, il sentimento interessa poco. La sua attenzione è catturata piuttosto dal modo in cui le strutture formali si determinano rampollando una dall'altra e poi si sfaldano tornando a un sostrato indifferenziato, dai processi di assolvenza e dissolvenza della forma, che vengono resi da Lonquich con una straordinaria sensibilità per l'aspetto “plastico”, architettonico del senso musicale, e con un controllo micrologico del suono. Dei due versanti, quello per il quale gli elementi discreti del nesso musicale a un certo punto si saldano fra loro e compongono una “unità di senso”, e quello per il quale la stessa struttura che si è composta sotto i nostri occhi subisce un'anamorfosi e si disgrega trasformandosi in qualcos'altro, Lonquich è interessato senz'altro di più al lato della frantumazione delle strutture sintattiche, della rottura abrupta della connessione discorsiva, del disfacimento di ciò che un attimo prima si era dato come intero. Il pianista sembra infatti apprezzare soprattutto il momento in cui un particolare, messo in opportuno rilievo o addirittura sovrailluminato, spezza la coerenza del tutto mostrando come, al di sotto del ductus di Schubert, ma anche di quello di Beethoven, si spalanchi una provocante vuotezza, un baratro nichilista dove perfino il dolore non può essere pienamente pronunciato perché non ha veramente senso. Sinnlosigkeit, “mancanza di senso”, potrebbe essere la cifra di quest'esecuzione sommamente elegante di Schubert, ma dalla quale è stata estirpata la vita con tutto il suo corredo di sentimenti e imperfezioni. Il fatto che la forma, in Schubert in generale e nelle sonate postume in particolare, veicoli un sentimento disperatamente umano, una ricchezza e pienezza sentimentali che non possono più incanalarsi nelle convenzioni classiche perché eccedono idealmente il dato “sensibile” che le dovrebbe portare alla luce, non interessa veramente Lonquich : fondamentale per il pianista è la tensione metafisica, alla quale viene sacrificato tutto quanto in Schubert è umano. Ma sta forse qui il carattere in fondo insoddisfacente di un'esecuzione pur coerente come questa : vengono infatti ignorate la fedeltà al dolore e la fraternità del compositore viennese verso le anime sofferenti che, arse dal desiderio di una parola di consolazione in un momento fatale, è proprio a Schubert che si rivolgerebbero.
Diverso il discorso per le Diabelli. Se infatti l'impostazione permane immutata – evocare l'horror vacui annidato sotto ogni nota di questo tardo Beethoven -, qui la logica della costruzione e immediato sabotaggio della connessione discorsiva, cara a Lonquich, incontra in maniera convincente i presupposti espressivi della pagina. L'aspetto straniante di questa tarda opera beethoveniana, che pare a tratti evocare gli spettri di una grande civiltà appena tramontata addirittura per prendersene gioco – in questo senso va a nostro vedere la citazione distorcente dell'Aria di Leporello “Notte e giorno faticar” -, stimola in Lonquich una lettura vistosamente congeniale. La sfilata di maschere di cui sono costituite le 33 Variazioni procede a un graduale quanto inesorabile “recedere dalla parvenza” (Adorno), in cui la “parvenza” è il dato sensibile, umano, vivente della musica che cede qui il posto a un discorso di pura speculazione, un gioco superiore con le convenzioni irrigidite del classicismo che una volta, quando ancora avevano la capacità di adattarsi al particolare, ospitavano il senso della musica. Non è un atteggiamento rinunciatario. Al contrario, Lonquich esegue le Diabelli trasformandole nel suo personale laboratorio delle streghe, dal quale conduce indisturbato esperimenti sul senso della musica che susciterebbero, se rivelati, l'orrore degli ascoltatori timorati. Tutta questa esecuzione emana infatti un inconfondibile sentore faustiano, il fremito per le ardite speculazioni teologiche e per i commerci proibiti. Ma il demonismo che serpeggia già nell'innocente, troppo innocente tema di Diabelli non è quello erotico o dandy di Liszt e di tanta Romantik, che gioca a evocare il diavolo come si giocherebbe con il più pittoresco fra i propri beniamini : il demonismo evocato da Lonquich è un arcaismo dell'anima, un demonismo freddo e intellettuale che richiama alla memoria il medievale Volksbuch di Spiess – la prima apparizione dello scienziato negromante disposto a vendere l'anima al diavolo pur di conoscere. Certo, la pagina di Beethoven si presta a meraviglia a un discorso che tenda a dissolvere la logica, ancora umana, in una speculazione oltreumana : giunto nella sua ultima stagione creativa, il compositore di Bonn gioca infatti a far sfilare le convenzioni classiche – valzer, fugati, minuetti – svuotate della loro ragion d'essere, che era quella di organizzare il senso, e le trasforma in contenitori vuoti e ormai privi di vita. Costitutiva del tardo stile beethoveniano – come insegna Thomas Mann nel Doktor Faustus, riprendendo un'idea di Th. W. Adorno – è infatti proprio questa presenza di strutture espressive che hanno perduto la capacità di organizzare il senso musicale e che tuttavia vengono evocate una dopo l'altra, come lasciandole sfilare sul proscenio della composizione per l'ultima volta. Lasciandosi alle spalle la tradizione classica con i suoi schemi di significazione, Beethoven allo stesso tempo compie lo Stile classico e lo affida alla storia come divenuto, e in questo addio a ciò che un tempo era stato vitale ed efficace, carne e ossa della musica, il riferimento non può essere che la morte. “Dove la grandezza e la morte si incontrano, nasce un'oggettività favorevole alla convenzione, un'oggettività che per spirito sovrano precorre di molto il più dispotico soggettivismo, perché la personalità esclusiva che pure è già stata il superamento di una tradizione portata fino alla vetta, sopravanza ancora una volta sé stessa entrando grande e spettrale nel regno del mito, della collettività” (Th. Mann, Doktor Faustus).
Sara, bellissimo articolo !