Programma

venerdì 2 novembre 2018, ore 21
sabato 3 novembre 2018, ore 17,30

Orchestra Sinfonica Siciliana,

Claire Levacher, direzione
Alexei Volodin,
pianoforte
Coro femminile del Conservatorio di Palermo,
direzione Fabio Ciulla.

Johannes Brahms (1833–1897),
Concerto n. 1 in re min. op.15 per pianoforte e orchestra ;
Claude Debussy,  (1862–1918)
Printemps ;
Debussy/André Caplet (1878–1925)
Clair de Lune ;
Claude Debussy, 
Trois Nocturnes : Nuages – Fêtes – Sirènes).

Palermo, Teatro Politeama, 3 novembre 2018

 

Per la sua sessantesima stagione, la Fondazione Orchestra Sinfonica Siciliana di Palermo ospita il grande pianista russo Alexei Volodin e il direttore d'orchestra francese Claire Levacher. La differenza di caratura tra i due compromette in parte l'esito del Concerto n. 1 in re min. op. 15 per pf. e orchestra di Brahms. Meglio la lettura dei brani di Debussy, sebbene con un taglio modernista non del tutto convincente. Bella prova del pubblico palermitano : folto, colto, disciplinato.

Un grande pianista in un concerto-chiave del repertorio, e un direttore d'orchestra donna (evitiamo volutamente di declinare il sostantivo al femminile : quella del direttore è una funzione, e non è suscettibile di un “punto di vista femminile”), è la formula interessante scelta dagli organizzatori per il concerto del 2 e 3 novembre dell'Orchestra Sinfonia Siciliana, a Palermo. Il pianista – a nostro vedere il massimo interprete al pianoforte di oggi – era il russo Alexei Volodin, impegnato nel Concerto n. 1 per pf. e orchestra di Brahms ; il direttore era la francese Claire Levacher, in un programma che dopo Brahms offriva i più congeniali Printemps, suite sinfonica, il Clair de lune (in versione per orchestra di André Caplet) e i Trois Nocturnes di Debussy. Affiancare a un solista di grande richiamo un direttore di minor carriera può funzionare a livello musicale se entrambi onorano le promesse ; funziona meno nel caso in cui uno dei due sia molto al di sotto dell'altro. Purtroppo, il Concerto di Brahms ha offerto una prova lampante di cosa succeda quando c'è una marcata differenza di caratura tra il solista e il direttore, per giunta in un brano dove il rapporto tra pianoforte e orchestra è strettissimo e va nel senso di un continuo spostamento del baricentro emotivo ed espressivo tra l'uno e l'altra, per un sistema di pesi drammatici che a tratti precipita in vere prove di forza, di confronti quasi muscolari, in cui il pianoforte e la massa orchestrale animano un intenso antagonismo.

Il Concerto n. 1 di Brahms è dal punto di vista storico una sorta di punto di arrivo in cui la dialettica tra pianoforte e orchestra, che potremmo qualificare tradizionalmente come una collaborazione e più raramente come una contrapposizione, si trasforma in un confronto titanico dal quale deve uscire lo strumento solista quale eroe capace di dominare il suo “avversario”. Ovviamente, all'interno di questo assunto di fondo ogni coppia di interpreti può scegliere la perequazione ideale dei pesi drammatici, trovando il punto ottimale della dialettica e il più congeniale rapporto. Nel concerto palermitano, invece, il direttore Levacher mostrava una totale incomprensione per questo Primo Concerto, per il suo titanismo romantico, per il modo in cui la violenza qui sublima l'erotismo, per il carattere estremo della contrapposizione solista/massa orchestrale. L'entrata in fortissimo dell'orchestra, che dovrebbe stabilire subito un clima di scontro arroventato e gettare anche i presupposti per le delizie delle tregue – qui di una dolcezza quasi insostenibile -, era del tutto priva dell'energia necessaria e l'attacco del solista, con un sognante piano espressivo, non contrastava con niente perché l'introduzione orchestrale non aveva stabilito una minima tensione, un minimo polo di contrasto. Levacher si è limitata a battere il tempo svogliatamente in una mera decifrazione – spesso anche poco precisa – di quello che c'è scritto nelle parti orchestrali. In effetti, per valutare il taglio che un direttore intende dare alla lettura del Primo, basterebbe ascoltare anche solo come viene eseguito il mordente di battuta 4, che conclude il trillo sul do bemolle : l'agogica è “maestoso”, la dinamica “fortissimo”, gli accordi a orchestra intera marcati, e il trillo sul battere della battuta 4 serve a rafforzare ulteriormente questa muraglia di suono, comunicando una potenza aggressiva. Il mordente che risolve quel trillo è un vera pietra di paragone : è evidente infatti che Brahms non lo intende come un “ornamento”, cioè un abbellimento inserito per ingentilire la carica elettrica del do bemolle. Quel mordente va suonato strettissimo e rafforzando il trillo perché il suo senso è quello di una frustata che canalizza tutta la violenza accumulata dall'inizio. Se lo si suona scandito e lezioso come un abbellimento barocco, tutta la carica di energia si disperde all'istante. Claire Levacher ha reso quel mordente determinante come se fosse stato scritto da Carl Philipp Emanuel Bach invece che da Brahms, e tutta l'impalcatura di tensioni si è subito squagliata. Nessun pianista al mondo, entrando dopo un'introduzione suonata in maniera così fiacca, avrebbe potuto reimmettere energia e agonismo nel Concerto perché il contendente, verosimilmente, si era arreso ancora prima di cominciare.

Se Levacher si è dimostrata del tutto insensibile al carattere eroico del Concerto di Brahms, anche Volodin ha mostrato di averne una concezione che non andava affatto nel senso della prova di forza, del confronto dialettico e muscolare, del titanismo romantico. La sua entrata è stata magica, con il più bel suono che si possa immaginare, ed era eloquente di una lettura che intendeva privilegiare il lirismo, la tenerezza, e persino – scovandola letteralmente fra le pieghe della partitura – una sorta di vena crepuscolare, un mondo piccolo piccolo ripiegato sul sentimento. I momenti in cui Brahms scioglie la tensione e arriva alla conciliazione, alla dolcezza, al sogno, sono stati resi da Volodin con un'intensità che, da sola, giustifica la sua posizione di vertice nel panorama pianistico di oggi. Nessuno ha un tale controllo dell'espressione e una paletta sentimentale sfaccettata quanto la sua : le esecuzioni di Volodin di brani per pianoforte solo, molte ascoltabili su internet, testimoniano di un interprete che ha la profondità di lettura, il radicalismo sentimentale e la cultura dei giganti del passato. Il titanismo di Brahms non lo interessa, è vero, ed è un peccato perché l'arco globale della forma rende i momenti di cedimento sentimentale ancora più struggenti se inseriti in una logica che prevede anche l'opposto. Non si può dire che la sua esecuzione manchi di energia, ma che manchi di “animalità” senz'altro. La sua cultura è tale da consentirgli di porgere ogni emozione e ogni sfumatura di significato in maniera mediata in quanto giustificata dalla forma e dalle tensioni strutturali : resta, però, che i culmini formali di questo concerto sono spesso picchi di energia selvaggia, e avrebbero goduto di un gusto meno raffinato ma più immediato. Non è un caso, in questo senso, che la parte migliore del Concerto sia stata il terzo movimento : qui l'intenzione di un'energia travolgente è talmente inequivocabile, e il senso globale è così strettamente regolato dalla tradizione sulle caratteristiche di un brillante “rondò finale”, che anche Volodin si è dovuto sintonizzare sugli assunti ineludibili della pagina. Di suo, ci ha messo la capacità unica di scolpire la forma, per cui il Concerto è risultato come una struttura – a suo modo logica, anche se non pienamente giustificata – dotata di una curva di tensione ascendente : partendo da un primo movimento lirico si è passati all'Adagio con un aumento della tensione, e si è raggiunta l'acme in corrispondenza delle battute conclusive del Rondò.

La seconda parte del concerto offriva brani celeberrimi di Debussy – il Claire de lune e i Nocturnes – affiancati alla Suite sinfonica Printemps, che per ironia della metereologia è stata eseguita sotto un diluvio molto autunnale di tuoni e fulmini per il quale è piovuto a catinelle fin dentro il Teatro Politeama. Chiaramente, Debussy era per il direttore Levacher la vera pièce de résistance della serata ed era fin troppo percepibile da parte sua una differenza di cura e di investimento rispetto a Brahms, considerato evidentemente come una sorta di “preambolo” da sbrigare in fretta. L'Orchestra Sinfonica Siciliana si è dimostrata pochissimo disposta a collaborare – perfino l'atteggiamento fisico degli orchestrali, quasi stravaccati sulle sedie, denota una mancanza di interesse –, e Levacher deve aver faticato non poco per ottenere un risultato decoroso. Debussy è un autore complicato, che può essere visto come il coronamento decadente del romanticismo, oppure come il fiammeggiante araldo del Nuovo, cioè della dissoluzione della tonalità, delle strutture formali che prendono il posto, per importanza, di quello che fino a pochi anni prima veniva veicolato dalle strutture stesse. Per Levacher, con tipico accento modernistico, la chiarezza delle architetture è quello che conta veramente, e tutte le linee sono state squadrate in modo da risultare in qualche modo sovradeterminate. L'aspetto del sogno, del flou, dell'allusione poetica, della vibrazione simbolista è stato ignorato perché Debussy è fondamentalmente, per il direttore francese, un precursore della prima e soprattutto della seconda avanguardia.

Un'ultima nota frivola relativa all'abbigliamento di Claire Levacher. Se evidentemente deve ancora essere codificato l'abbigliamento ideale per una donna direttore – sono prima di tutto una donna o un direttore d'orchestra ? porto prima i tacchi o la bacchetta ? – i pantaloni piuttosto ordinari e la casacca con una sorta di mantellina corta tipo ali di pipistrello non sono verosimilmente la soluzione giusta. Meglio sarebbe un bell'abito da sera, femminile, ma con un taglio austero : la conquista di una posizione di tradizione maschile non comporta di per sé una condanna a essere inelegante.

Alexei Volodin

 

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Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.

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