Giuseppe Verdi (1813–1901)
Messa da Requiem (1874)
Prima esecuzione a Milano  (nella Chiesa di San Marco) il 22 maggio 1874

Daniele Gatti, direzione musicale

Eleonora Buratto, soprano
Marie-Nicole Lemieux, contralto
Michael Spyres, tenore
Riccardo Zanellato, basso

Chœur de Radio France,
Maestro del coro : Alessandro Di Stefano
Chœur de l'Armée française
Maestra del coro : Aurore Tillac
Orchestre National de France

 

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 3 e 5 febbraio, Ore 20

Per due sere, l'Orchestre National de France ritrova Daniele Gatti, già direttore musicale fino al 2016, in una magistrale esecuzione della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi che è sia concentrata che appassionata o raccolta. Le forze del Coro di Radio France e del Coro dell'esercito francese, riuniti per fare causa comune per rispondere alla crisi del covid, sostengono quartetto vocale notevole e senza precedenti, riunendo personalità vocali di diverse culture canore, Marie-Nicole Lemieux e Michael Spyres, Eleonora Buratto e Riccardo Zanellato.

 

Il Théâtre des Champs-Élysées segnava il tutto esaurito per le due serate di questo Requiem di Verdi con Daniele Gatti a capo dell’Orchestre National de France. Un successo di pubblico che contrasta con le scarse presenze nei teatri in questa stagione, segnata dalla nuova ondata di Covid e da una serie di cancellazioni. Il fatto che il pubblico sia accorso in massa per l'evento la dice lunga sulla voglia di musica, ma probabilmente ancora di più sulla popolarità di un pezzo che, insieme alla Nona di Beethoven e forse alla Sinfonia Resurrezione di Mahler, è una delle più amate dal grande pubblico, e non solo dagli amanti della musica. Vedere il tutto esaurito e soprattutto un tale successo scalda il cuore dopo i tempi duri che abbiamo vissuto.

Ecco un Requiem che fa bene al corpo e all'anima, con un insolito schieramento di interpreti con individualità provenienti da diverse culture vocali, come Marie-Nicole Lemieux e Michael Spyres venuti dal Barocco, mentre Eleonora Buratto e Riccardo Zanellato sono puri prodotti della scuola italiana di canto.

Il tenore Michael Spyres, che in quest’inizio di febbraio si cimenta con Verdi, e anche con Wagner (a Lione il 13 febbraio nel secondo atto del Tristano e Isotta con Daniele Rustioni sul podio dell’Orchestra dell’Opera di Lione), è noto per le sue interpretazioni barocche e belcantiste, e anche per la sua padronanza dello stile francese, in particolare di Berlioz. Infatti, si avvicina alla parte tenorile aggirando, grazie alla sua famosa tecnica, certi cambi di registro sovraesposti, con una linea generale che assume perfettamente belle e chiare finezze e ornamentazioni anche se ogni tanto mascherano certe difficoltà (ad esempio nell’Ingemisco). Gioca con la sua tecnica e la sua immensa musicalità a variare il colore della voce e gioca su una tavolozza sorprendente in questo tipo di repertorio, come per esempio l'uso della voce mista che, nel Hostias, minaccia di rompere l'equilibrio, ma per fortuna l'insieme trova una stabilità con gli interventi di Marie-Nicole Lemieux e Riccardo Zanellato. Attualmente, il canto verdiano è spesso segnato dall'influenza del verismo, e guarda verso un espressionismo un po' esagerato (non solo il canto verdiano, ma anche il bel canto, ahimè), con Spyres, si ritorna a un modo di cantare più legittimamente basato sui periodi che precedono e non su quelli che seguono… E questo è una fortuna, anche se può apparire incongruo ad alcuni. Si sentono colori quasi “berlioziani” in questo modo di affrontare la parte e non è necessariamente una contraddizione…

 

Da qualche tempo, Marie-Nicole Lemieux ha messo le sue notevoli risorse e la sua presenza, anzi la sua aura, al servizio di un repertorio più ampio, alternando recital e concerti, e performance operistiche che vanno dal Radamisto di Handel a Carmen o Dalila. Senza raggiungere la forza drammatica e quasi profetica di Elina Garança, stupefacente nella parte di mezzosoprano del Requiem di Verdi, mette al servizio di un'incarnazione molto lirica e un ampio spettro, combinando bassi molto sonori e magnificamente timbrati – benvenuti in quest'opera – e acuti sicuri, anche se senza luminosità, con un'emissione non sempre omogenea ma prepotentemente viva e umana, come testimoniano i suoi Liber Scriptus e Lux aeterna. Il suo modo di esprimere questo testo dimostra una tecnica coltivata in opere del Settecento che ci ricorda che la cultura barocca sopravvive anche in quella del belcanto, un fatto molto dimenticato negli ultimi anni mettendo il bel canto e Verdi nell'anticamera del verismo…

In contrasto con questa tradizione, Eleonora Buratto, che in pochi anni è diventata uno dei soprani italiani più sicuri e importanti, mostra una tecnica impeccabile, con uno strumento volenteroso, proiettando i suoi acuti con una concentrazione e un controllo che rendono udibile a volte il raccoglimento e la spiritualità a volte il rifiuto umano della morte.  Sicura delle sue note alte, ha pero la tendenza a proiettarle un po' troppo forte a volte. Ecco l'esempio di una cantante che si è preoccupata di coltivare l’acuto e meno sulle sue note gravi, mentre potrebbe mettere la sua tecnica più risolutamente al servizio della sensibilità ed essere, per esempio, una mozartiana esemplare. Purtroppo, si è imbarcata recentemente nell’ Aida, il che è un errore, poiché le sue qualità in questa fase della sua carriera la rendono più adatta a tutto il repertorio precedente.
Resta il fatto che le sue interpretazioni illuminano l'Offertorio particolarmente commovente.  Mostrando un'interiorità che non sempre mostra con tanta sensibilità, fa del Libera me una preghiera ardente e appassionata e nei suoi ultimi interventi, quasi sussurrati e vibranti, ci fa sentire, soprattutto nel secondo concerto (il 5), l'angoscia molto umana alle soglie del Giudizio.

Riccardo Zanellato è attualmente uno dei rari bassi di riferimento nella penisola, insieme a Roberto Tagliavini, se si esclude Michele Pertusi di un'altra generazione che rimane ancora oggi un artista immenso (un altro cantante che si è confrontato con il belcanto e la cui tecnica gli ha permesso di affrontare una gamma molto più ampia del repertorio). Zanellato sembrava un po' sottotono la prima sera, ma molto più in voce la seconda. Pur non essendo un cantante di concentrazione interiore o di meditazione, riesce a colorare con un grano di voce denso e brusco la sorpresa immobile del Mors stupebit, formidabilmente messo in scena da Verdi, dopo l’esplosione del Dies Irae, ma anche nel lamento del Lacrymosa che conclude in modo travolgente tutta la parte iniziale.

Daniele Gatti dirige questo capolavoro con una vicinanza d'anima che dà alla sua interpretazione la dimensione di una professione di fede. Dirigendo come sempre senza spartito, il direttore milanese impone un ritmo e un'altezza di visione che rende l'ascolto “un'esperienza”. Qui non c'è nessun grande spettacolo, niente di superficiale. Fin dall'inizio, la concentrazione e la profondità regnano. E di conseguenza, anche lo spettacolo di forza e la motricità elegiaca che confonde la fede e il sulpiziano sono consegnati al guardaroba.

L'approccio è addirittura sorprendente, con una certa durezza, un confronto senza abbellimenti, come davanti a un tempio con colonne doriche, poste sulla terra, in una sorta di nudità che colpisce, con questi silenzi prolungati che si immergono nella meditazione.  Una visione piuttosto giansenista insomma, tutt'altro che decorativa.  La necessità di ampliare lo spazio, sempre delicato a causa del Théâtre des Champs-Élysées all’acustica troppo asciutta, e forse un po' troppo piccolo per un'opera del genere, giustifica ulteriormente la disposizione dei quattro gruppi di trombe del Tuba mirum in alto nelle gradinate a diversi livelli, come tra l’altro avviene oggi nella maggior parte delle esecuzioni e qualunque sia il luogo.

Il gioco dei contrasti è forte, e Gatti rifiuta ogni concessione al decoro, facendoci sentire un Verdi che è tutta spiritualità, ma non necessariamente tutta religiosità. Ciò che emerge qui è innanzitutto l'infelicità e la piccolezza dell'essere umano ancora in vita (lo sottolineava già Franco Abbiati), la sua angoscia, i suoi sguardi spaventati sull'orlo dell'abisso e dell'ignoto, anche i suoi dubbi, e quindi le contraddizioni tra la solitudine di fronte all'ignoto e la fede e le sue certezze. Siamo vicini a una scommessa pascaliana, a un "presentimento di eternità" come diceva il musicologo Henry Prunières…

È quest’interpretazione quasi giansenista non si perde dunque nello splendore romano o nella doratura. Da qui certi momenti in cui i suoni sono sorprendenti nella loro asprezza, nei loro aspetti sballottanti, al limite della rottura della tonalità, offrendo una versione particolarmente originale (non senza evocare Berlioz in certi momenti) e scomoda del pezzo che può aver colpito alcuni, stupito altri e deluso qualche raro ascoltatore.

L'Orchestre National de France, sotto la direzione del suo ex-direttore musicale, trova il giusto equilibrio tra teatralità e spiritualità, dando a tutto il Dies Irae meno l'aspetto di uno spettacolare tableau vivant che la veemente manifestazione della paura della morte e della trascendenza. Gli ottoni e le percussioni accentuano il colore tragico, facendo vibrare senza concessioni un'atmosfera già oscurata dall'introduzione Requiem-Kyrie, cantata e sussurrata quasi sottovoce. Altrove si rimane sorpresi dalla limpidezza della resa, come l'estrema delicatezza dei violini nel Sanctus, una sorta di sospiro appena percettibile e letteralmente travolgente, che continua nel momento di raccoglimento che è l'Agnus Dei, o il delicatissimo flauto conclusivo del Lux Aeterna. Altrove, certi interventi strumentali, in particolare dei fiati (notevoli), suonano quasi sarcastici, come se la nostra miseria e perdizione fossero sottolineate nel Libera me, forse il momento orchestrale più intenso, un momento di vita "intensificato dalla morte", come aveva scritto Prunières.

Per ragioni legate ai capricci della crisi di Covid, il coro di Radio France ha fatto causa comune con il coro dell'esercito francese, superbamente preparato da Alessandro di Stefano e Aurore Tillac. Ammiriamo l'impatto e la coesione di queste forze corali, costrette a cantare in fondo al palcoscenico con maschere e distanze sanitarie. Tutti investono il testo con impegno e vigore, capaci di alternare nel Sanctus la proiezione tellurica dei primi accordi con la leggerezza delle voci fugate. Si sogna quasi un luogo più etereo, dove "il tempo diventa spazio".

Una serata da ricordare.

 

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