Giacomo Puccini (1858–1924)
Turandot (1926)

Dramma lirico in tre atti
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni da Carlo Gozzi
Rappresentato per la prima volta alla Scala di Milano il 25 aprile 1926
Finale completato da Franco Alfano (1875–1954) (prima versione)

Turandot : Sondra Radvanovsky
Liù : Ermonela Jaho
Calaf : Jonas Kaufmann
Altoum : Leonardo Cortellazzi
Pang : Gregory Bonfatti
Pong : Siyabonga Maqungo
Ping : Mattia Olivieri
Timur : Michele Pertusi
Mandarino : Michael Mofidian
Principe di Persia : Francesco Toma
Ancella I : Valentina Iannotta
Ancella II : Rakhsa Ramezani Melami

Orchestra, coro e voci bianche dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Direttore musicale : Antonio Pappano

 

Roma, Auditorium Parco della musica, sabato 12 marzo 2022, ore 18

Grande attesa e presenza giubilante di un pubblico multinazionale per questo unico concerto di Turandot, che l'Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha inserito come serata straordinaria della sua stagione 2021/22, dopo la registrazione in studio dell'opera che gli stessi interpreti hanno completato nei giorni scorsi (con la presenza molto distinta nella registrazione del tenore Michael Spyres, nel breve ruolo di Altoum, annunciato per il concerto e poi sostituito) 

L'Auditorium Parco della musica (Arch.Renzo Piano)

Inutile dire che Turandot ha raggiunto le vette della popolarità nei teatri di tutto il mondo : è l'ultima delle opere di Puccini. È anche, secondo l'opinione di alcuni eminenti specialisti della sua musica, la più moderna di tutte, quella che riesce a incorporare le innovazioni del suo tempo nella tecnica compositiva senza sacrificare la sua accessibilità a tutto il pubblico, che la favorì fin dalla sua prima del 1926, grazie al suo ardente lirismo e alla rigorosa concisione della sua costruzione drammatica.

È un'opera per voci, che fa appello a tre tipologie vocali contrastanti nei suoi ruoli principali : un tenore dagli accenti eroici, Calaf, che deve anche essere in grado di esprimere il sentimento dell'amore, una sorta di condensato delle virtù e degli attributi del tenore italiano, che di solito si intende destinato a voci della categoria "spinto", come quella del primo protagonista, lo spagnolo Miguel Fleta ; un soprano drammatico, Turandot (la polacca Rosa Raisa alla prima), il cui ruolo è tanto breve quanto impegnativo, e che deve possedere un registro acuto scintillante, capace di perforare il muro della massa strumentale (ecco perché nelle abitudini esecutive dell'opera, le cantanti wagneriane si sono avvicinate al personaggio a un certo punto della carriera, Da un punto di vista interpretativo, le viene richiesta una varietà di registri, dal disprezzo e persino la crudeltà con cui viene presentata all'inizio alla fusione o umanizzazione da parte della forza trasfigurante dell'amore che, come una sorta di “Arianna cinese”, deve trasmettere nel duetto finale ; e un soprano lirico, Liù (l'italiana Maria Zamboni alla prima), ultimo avatar della galleria di personaggi femminili innamorati, sensibili e sofferenti, ritratti dal compositore, che, forse paradossalmente, è quello che più spesso riesce a ottenere gli applausi più sentiti dal pubblico, di fronte al carattere intenso e così lirico, e comunque profondamente commovente, dei due grandi momenti solistici a lui destinati, la breve esortazione Signore ascolta nel primo atto, e ancor più la scena che culmina al momento del suo suicidio nel terzo atto, Tu che di gel sei cinta.

Un'opera anche, e forse ancora di più, per un grande ed efficace complesso corale e orchestrale, il più grande che Puccini abbia usato in tutta la sua carriera, includendo anche voci bianche e una grande sezione di percussioni, perché il quarto personaggio più importante dell'opera è certamente il popolo di Pechino, che viene chiamato in causa dal discorso iniziale del mandarino, protagonista di tutta la prima parte del primo atto. Persone, tanto anonime quanto reali, che, come in altri momenti della storia lontana e recente dell'umanità ai quali non è necessario riferirsi più dettagliatamente, assistono, tra impulsi contraddittori di silenzio, orrore, disagio, ambivalenza e viltà, alle azioni apparentemente destinate ad altri, di coloro che in realtà determinano il loro destino collettivo.
E l'opera, naturalmente, è fatta per un regista che sappia organizzare i sontuosi elementi a sua disposizione, che sia in sintonia con la disparata e folgorante eredità del modernismo estetico e musicale del primo terzo del XX secolo. L'opera conserva sia l'incandescenza tragica delle vicende dei protagonisti principali sia, come contrappunto, introduce l'ironia e il grottesco che, relativizzando (svalutando ? ) gli interventi esaltati del principe sconosciuto, della principessa gelida e della schiava innamorata, introducono un'antitesi o uno strumento di distanziamento : È il trio di ministri della Commedia dell'arte, ancora la giustapposizione tra il sublime e il ridicolo, tra l'opera seria e l'opera buffa, come in Ariadne auf Naxos, la cui seconda (e definitiva) versione risale al 1916, poco meno di dieci anni prima di Turandot, ma anche come in Shakespeare, e come in Cervantes ; e allora un regista specificamente operistico sarà in grado di trasmettere la posizione eccezionale dell'opera non solo come punto finale e culminante della produzione di Puccini, ma anche, in più di un modo, di tre lunghi secoli di storia dell'opera italiana, per l'uso della voce con una potenza melodica ed espressione di emozioni umane le cui radici risalgono, oltre a Verdi, al bel canto romantico e persino allo stesso Monteverdi

Oltre a tutti questi problemi, la rappresentazione di Turandot si distingue come opera incompiuta : al di là della scena della morte di Liù, il compositore riuscì a lasciare solo qualche schizzo o nota di quello che doveva essere il duetto finale di redenzione per amore della principessa. Di nuovo, le varie soluzioni, generalmente insoddisfacenti, a questa non trascurabile questione sono ben note. La prima, chiaramente dominante nella pratica esecutiva, soprattutto fino a poco tempo fa, era quella di presentare un finale composto su richiesta del direttore musicale della prima dell'opera, Arturo Toscanini, dal suo contemporaneo Franco Alfano, in una versione abbreviata di quello originariamente composto dallo stesso Alfano, poiché Toscanini non aveva gradito il primo. L'inconveniente principale di questa soluzione è la differenza evidente tra questo finale e la qualità di quello che Puccini ha scritto. La seconda, scelta ad esempio per la presentazione dell'opera al Festival di Salisburgo nel 2002, diretta da Valery Gergiev, o per la sua produzione più recente alla Scala nel 2015, diretta da Riccardo Chailly, consiste nel presentare il finale scritto da Luciano Berio ; ma in questo caso, il divario tra lo stile di scrittura di Berio e quello di Puccini è così ampio che, indipendentemente dal maggiore o minore grado di aderenza all'opera di Puccini, è impossibile percepire il finale come parte della stessa opera. La terza, che segue l'attuale produzione creata nel 2011 da Zubin Mehta alla Bayerische Staatsoper, è quella di offrire esclusivamente la musica composta da Puccini, senza aggiungere un duetto finale tra il principe e la principessa, in modo che l'opera termini con la scena della morte di Liù, abbastanza catartica di per sé, e il corteo funebre che segue, con il commovente lamento di Timur per la schiava, il cui esempio diventa una straziante metafora di un'umanità sacrificata forse inutilmente, come fa Arkel con Melisande.

Non è la meno convincente delle soluzioni, né la meno rispettosa di Puccini come compositore : se l'Incompiuta di Schubert o la Nona di Bruckner si sono affermate (nonostante tentativi più o meno riusciti di articolare versioni compiute) come opere perfettamente compiute, elementi monumentali la cui mancanza di completamento non impedisce la loro autonomia, la loro vitalità e pienezza come opere d'arte, ci si può solo chiedere perché la stessa considerazione e deferenza non dovrebbe essere mostrata a colui che è generalmente riconosciuto come uno dei più grandi compositori del genere operistico di tutti i tempi.
E la quarta e più rara di tutte le alternative è quella scelta in questa serata, e quella che si può quindi sperare che venga inclusa nella tanto attesa registrazione ufficiale ; cioè niente di meno che un ritorno al finale originale composto da Franco Alfano, un duetto tra il principe e la principessa e l'apoteosi finale dell'orchestra e del coro sul famoso tema di Nessun dorma, ma un duetto notevolmente più lungo che nella versione usuale, con notevoli richieste al soprano e al tenore, e una sezione centrale introspettiva alla maniera del duetto conclusivo del terzo atto di Siegfried ; questa versione, ascoltata in questa occasione, è chiaramente più soddisfacente della solita versione abbreviata, anche perché riesce a ritrarre la trasformazione del protagonista in modo più graduale, convincente e credibile. In ogni caso, la questione rimane aperta, e sembra chiaro che è impossibile, o addirittura inutile, raggiungere una conclusione univoca, definitiva e permanente.

Per quanto riguarda lo spettacolo della serata, sarà opportuno iniziare affrontando, come siamo soliti fare, gli aspetti legati alla “messa in scena”. Fermo restando che questa sera non esiste, almeno in linea di principio, alcuna messa in scena (come dicono i ministri, Turandot non esiste), poiché l'opera viene presentata in quella strana forma ibrida che è la versione da concerto. Ma ogni concerto, compresi quelli in cui l’opera proposta appartiene al genere teatrale, ha una certa componente drammatica, che inizia con la solenne apparizione (o meno) sul palco dei professori dell'orchestra e, se del caso, dei membri del coro, seguita dall'apparizione del primo violino, e culmina in quella del direttore musicale, come un figlio dal cielo che appare per svolgere il suo sacro ufficio davanti al popolo. Quando l'opera viene eseguita in concerto, la protagonista principale è l'orchestra, che occupa la parte centrale e più importante del palcoscenico, libera di riversare la pienezza del suo suono sulla platea senza le costrizioni della buca dell'opera ; e ancora sopra l'orchestra, il suo direttore, che è anche il direttore del coro e dei solisti, e attorno al quale gravita la galassia formata dagli interpreti.

Questo è stato il caso oggi, e l'atteso rituale si è svolto nella normalità. L'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia riempiva o quasi l'immenso spazio centrale con i suoi oltre cento strumentisti, mentre i membri dei cori, osservando inaspettatamente rigide misure di distanziamento sociale (o era anche un effetto drammatico?), erano armoniosamente distribuiti nelle ampie tribune davanti e ai lati del direttore-solo. Inoltre, alla sua destra, condividendo lo spazio con i coristi, c'erano alcuni degli ottoni e delle percussioni. Il coro dei bambini è apparso all'inizio del primo atto, occupando la parte più alta della sala, come si addice alla sua natura angelica.

 

Turandot (Sondra Radvanovsky)

Quella di Turandot, come richiesto dal libretto, ha avuto luogo nel primo atto, l'interprete nella fila superiore di fronte al direttore d'orchestra, splendida nel suo silenzio imperiale, anche nel suo lungo abito che abbandonerà per una versione più semplice e umana nel terzo atto. Anche se i cantanti sono rimasti generalmente vicini ai loro rispettivi posti, il tenore si è preso la libertà di avvicinarsi al soprano durante il duetto finale per abbracciarla, mentre l'orchestra spiegava eloquentemente il risveglio dell'amore tra loro. E durante tutto il concerto, ci sono stati giochi con le luci, volti a focalizzare l'attenzione su alcuni punti della sala (per esempio, la già citata apparizione della principessa nel primo atto), e/o a rinforzare le sensazioni suscitate dalla musica (per esempio, nelle battute finali, quando tutte le luci si sono accese al ritmo della pienezza musicale del momento).

Così avevamo, se non una messa in scena, o un'ambientazione, almeno un'illuminazione. Turandot, in ogni caso, non è l'opera che meno si presta a una versione da concerto, a causa della già citata importanza dell'orchestra e del coro nel suo sviluppo, e anche per la natura ieratica di alcune delle sue scene e l'astrazione formale ricercata in altre (per esempio gli interventi dei ministri). Questo ha permesso all'opera di resistere perfettamente, per esempio, a un esercizio di ritualizzazione così rigoroso (e sterile) come quello a cui è stata sottoposta da Robert Wilson all’Opera di Parigi (Bastiglia) qualche mese fa. Da questo punto di vista, una versione da concerto come quella proposta oggi svolge la funzione di una pagina bianca o di una tela, sulla quale lo spettatore può riversare le sue fantasie visive e drammatiche che la musica, più o meno nuda, suscita in lui.

 

Mostra delle scenogragie e costumi originali della Prima assoluta di Turandot o

Un'immaginazione che è suscitata anche dalla contemplazione nel vasto foyer dell’auditorium delle immagini conservate dalla scenografia originale della prima dell'opera, di Galileo Chini, e dei costumi creati da Luigi Sapelli, che pongono lo spettatore di fronte a quello che la mostra proposta all'Auditorium fino alla fine di questo mese descrive giustamente come l'Oriente fantastico di Puccini.

Antonio Pappano

Durante il suo non breve mandato come direttore dell'orchestra romana, Pappano ha offerto versioni da concerto di una grande varietà di opere, da Don Giovanni a Peter Grimes, Guglielmo Tell, Un ballo in maschera o Aida, che è stato registrato simultaneamente in studio, una procedura che si ripete oggi per Turandot. Pappano è senza dubbio uno dei più eminenti direttori pucciniani degli ultimi decenni, e questo, unito al suo status di direttore titolare di uno dei grandi teatri d'opera come la Royal Opera House, rende certamente singolare, se non addirittura anomalo, il fatto che non abbia ancora affrontato un'opera importante come Turandot. Oggi, è stato lui che ha ricevuto le ovazioni più calorose dal pubblico, e anche una standing ovation alla fine della performance. La sua direzione si basa sul desiderio di rispettare ciò che è scritto nella partitura, nell'atteggiamento che ha caratterizzato la sua carriera, lontano dal divinismo, da approcci narcisistici che enfatizzano la propria presenza piuttosto che l'opera eseguita. Come Turandot, Pappano non esiste ; eppure, senza di lui, nulla è possibile. La sua interpretazione si attiene a una via di mezzo espressiva, ed è forse per questo che, da un'apparente mancanza di enfasi, riesce a bilanciare le mille e una corrente estetica che convergono nella partitura. Meno sensuale e spettacolare di Mehta, meno dissonante e moderno di Chailly, meno sinfonico e narrativo di Dudamel, Pappano non dimentica di includere nella sua ricetta le dosi appropriate di ognuno di questi ingredienti, e siccome è anche, o soprattutto, uno splendido direttore d'opera, riesce a fare una Turandot sinfonica che è anche uno scrigno esemplare per le voci, che trovano sempre lo spazio necessario per respirare. Meticoloso, porta alla luce una pletora di dettagli nella scrittura strumentale che di solito passano inosservati o sono semplicemente trascurati. Turandot è quindi simile agli altri orientali fantastici concepiti o sognati dai musicisti occidentali all'inizio del XX secolo, con un senso di colorazione orchestrale che ha qualcosa a che fare con i Ravel, Szymanovsky o Scriabin che Pappano ama inserire nei suoi programmi sinfonici, e che viene presentato non come ornamento ma come parte essenziale del discorso musicale. Così diretta, l'orchestra di Santa Cecilia dimostra ancora una volta che in questo repertorio non ha nulla da invidiare a nessun altro, e anche il coro diretto da Piero Monti è all'altezza del compito, con una straordinaria varietà di dinamiche e una presenza molto potente nelle battute finali.
Il merito di Pappano è anche quello di aver raccolto intorno a sé una squadra di voci soliste davvero splendida, assemblata con un lusso incredibile nei ruoli più minori.

In effetti, non è una cosa da poco sentire le frasi di Altoum scolpite con la chiarezza, l'eleganza e l'incisività del tenore Leonardo Cortellazzi, la cui voce chiara e penetrante arriva senza soluzione di continuità nella galleria finale dell'auditorium ; Anche le esortazioni del Mandarino sono degne di nota, quando sono pronunciate con la stessa autorità e chiarezza del basso-baritono Michael Mofidian, che Wanderer ha notato in diverse occasioni a Ginevra.

Terzetto dei Ministri : Ping (Mattia Olivieri) Pong (Siyabonga Maqungo) Pang (Gregory Bonfatti)

Nel trio dei ministri brilla la generosa vocalità del tenore Siyabonga Maqungo, che ricordiamo con gioia come David nei Meistersinger al Festtage di Berlino 2019, così come il velluto del baritono Mattia Olivieri e l'espressività del tenore Gregory Bonfatti.

Ermonela Jaho (Liù) e Michele Pertusi (Timur)

Nella genealogia di Puccini, Timur è il “figlio di Colline”, anche se il lamento con cui finisce il suo ruolo sembra trascendere le circostanze individuali che lo generano. La presenza di Michele Pertusi in questo cast, assemblato per la registrazione, era evidente, dato l'eminente posto dell'artista tra le voci di basso della sua generazione ; e se l'acustica dell’ampia navata di Santa Cecilia è estremamente sfavorevole ai cantanti, così che il suo strumento non sempre si impone sul tessuto orchestrale e corale con la rotondità idealmente desiderabile, Timur raramente è stato ascoltato così eloquente, così umano e così commovente.

Ermonela Jaho (Liù)

Ermonela Jaho è un'altra cantante che non ha bisogno di presentazioni ; tra l’ampia gamma di personaggi che ha affrontato, sono sicuramente le sofferenti eroine pucciniane che meglio si adattano al suo temperamento e ai suoi mezzi, come la sua indimenticabile Suor Angelica a Monaco di Baviera. Il ruolo di Liù, probabilmente il più toccante e popolare dei tre ruoli principali, è perfettamente adatto a Jaho, che può mostrare a volontà la purezza della sua linea vocale, la luminosità radiosa del suo registro alto, il moiré squisito delle sue variazioni di intensità, in frasi ampie, estatiche, cangianti, che, conformemente alla loro funzione propria all'interno della partitura, fermano almeno per un momento la macchina infernale delle masse e ci pongono per qualche istante alla presenza dell'ineffabile, come se fosse presente la voce di un angelo profano. E c'è qualcosa dell'emozione religiosa nel canto intenso, cristallino, perfettamente misurato e cesellato di Jaho.

Jonas Kaufmann (Calaf)

Il ruolo di Calaf è nuovo per Jonas Kaufmann, che ha appena debuttato come Peter Grimes a Vienna poche settimane fa, e che ha affrontato lui stesso il ruolo di Tristano a Monaco per la prima volta lo scorso luglio, il che dimostra l'estrema versatilità dell’artista. La voce di Kaufmann, come è noto, non corrisponde in linea di principio a ciò che è comunemente associato alla voce del tenore italiano. Si cercherebbe invano l'arroganza esaltata di un Corelli (e dei suoi successori) nel suo Calaf, o il colore mediterraneo del timbro che è la quintessenza di altri colleghi del passato come Di Stefano o Pavarotti, o l'ardore e la comunicativa diretta del temperamento di un Carreras o di un Domingo.  Eppure… Eppure, come ha fatto con altri ruoli italiani altrettanto estranei in teoria alla sua personalità, da Manrico a Radamès a Chénier, Kaufmann sa portare il ruolo sul proprio terreno, grazie all'ineguagliabile intelligenza che possiede come interprete, come musicista di straordinaria levatura. Dopo aver superato un'apertura del primo atto che lo ha trovato freddo e piuttosto opaco, privo della necessaria presenza (ma a dire il vero, gli accordi iniziali dell'orchestra non erano i più pieni e unanimi sentiti durante la serata), in Non piangere Liù canta con straordinaria delicatezza ed emozione, e se la scena degli indovinelli o il vasto duetto finale sembrano sfiorare i limiti delle sue possibilità vocali, soprattutto per quanto riguarda l'emissione, che non è imponente, il canto è di indubbia sicurezza, il registro alto risponde in modo sicuro e l'espressione è in ogni momento giusta e adeguata, ottenendo un'efficace esecuzione del timbro baritonale (molto bello) per ritrarre il lato eroico del personaggio, anche se la chiave del suo trionfo sta, come sempre, nella ricreazione attenta, poetica e interiorizzata del testo. Non ci si aspetterebbe che Kaufmann, come fece con Siegmund, desse alle note di Calaf l'intensità trascendente e la varietà colorata del Lied, ma lo fece. Infine, Nessun dorma è cantato con tanta sicurezza quanto abbandono, con tanto equilibrio quanto eleganza, e culmina in una nota alta ampiamente sostenuta.

Sondra Radvanovsky (Turandot)

Anche per Sondra Radvanovsky, il ruolo di Turandot è una nuova aggiunta ad una carriera già ricchissima. Ed è difficile avere riserve su una ricreazione che in qualche modo fa quadrare il cerchio. La Radvanovsky è riuscita a collocare il ruolo nelle coordinate di un canto autenticamente italiano, non come “l'Elektra pechinese” che tanto spesso sentiamo (con rassegnazione), ma come evoluzione o trasformazione delle eroine verdiane che ha integrato così bene (Elena de I vespri siciliani, che è stato il suo biglietto da visita per tanti anni, ma anche Leonora de Il trovatore o Aida), e più indietro, delle regine donizettiane che ha avvicinato più recentemente. Come tutti questi personaggi, la sua Turandot è – e la cantante riesce a renderlo chiaro fin dai suoi primi interventi – piena di dubbi e sentimenti contraddittori. Raramente in questa reggia si è percepito come il personaggio sperimenti un desiderio per la possibilità di donarsi ad un altro, e allo stesso tempo una paura paralizzante di quella stessa possibilità. Questa Turandot è dunque profondamente umana, la sua distanza iniziale è un meccanismo di difesa piuttosto che una componente della sua natura ; e proprio per questo la trasformazione finale è più credibile e completa, il che favorisce anche l'uso della versione originale di Alfano. C'è in questa situazione drammatica, e c'è forse in questa musica ed esecuzione, come è già stato menzionato, qualcosa della complessa intermittenza dei sentimenti provati da un'altra principessa del ghiaccio come Brünnhilde nell'angoscia di darsi a un semplice mortale, durante il duetto altrettanto conclusivo nel terzo atto di Siegfried. Nella storia dell'interpretazione dell'opera, altre colleghe come Joan Sutherland o Katia Ricciarelli si erano già avvicinate al personaggio di Turandot a partire da una lettura in chiave italiana e dal colore ottocentesco, ma si trattava di approssimazioni (o esperimenti, come venivano chiamati un tempo) per il disco, che cautamente non erano accompagnati dall'esecuzione dal vivo ; e in ogni caso, le caratteristiche vocali degli artisti citati permettono di dubitare della fattibilità della loro ipotetica incarnazione del ruolo sul palcoscenico.
Nel caso della Radvanovsky, lo strumento si dispiega in tutti i registri con pura e semplice potenza, capace di superare la presenza teoricamente schiacciante delle masse corali e orchestrali con facilità e senza sforzo apparente, e la natura gigantesca della sala diventa un altro strumento della sua interpretazione, nella misura in cui la cantante sa (perché è capace di farlo) come sfruttare la monumentalità di uno spazio in cui il suo strumento può dispiegarsi con una ricchezza ed esuberanza che la distingue da tutti gli altri suoi colleghi. Si prende persino la libertà, nel segmento conclusivo del duetto del terzo atto, di introdurre una modulazione affascinante e perfettamente calibrata della parola Amore, prima riducendo e poi aumentando l'intensità dell'enunciato, un momento che basterebbe da solo a spiegare la psicologia tormentata e il senso di intima liberazione provato dal personaggio.

Non ci resta che aspettare, insaziabilmente, il momento in cui entrambi i protagonisti decideranno di incorporare i loro rispettivi ruoli su un palcoscenico teatrale. Per ora, questa Turandot ci ha trasportato per qualche ora, al di là delle preoccupazioni dell'oscuro presente in cui viviamo, in un paradiso di fantasia e bellezza da cui non vorremmo fuggire.

Sondra Radvanovsky (Turandot), Jonas Kaufmann (Calaf)

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