Antoine Pecqueur
Atlante della cultura.
Da Netflix allo yoga : il nuovo soft power
Tradotto da Raffaele Cardone

Add Editore, Torino, 144p, 22.00 €
ISBN : 9788867833283

 

Data di uscita : settembre 2021

Arriva in libreria un volume che chiunque si interessi di cultura dovrebbe leggere : Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga : il nuovo soft power, di Antoine Pecqueur. Il libro mostra che l'arte e la cultura costituiscono oggi una forma di potere molto desiderata, specialmente dai regimi autoritari che ne se servono per i loro scopi. Non c'è ramo della cultura che sia immune dalla presa della politica. I musei occidentali sono diventati “brand” che l'Europa vende al miglior offerente (grottesco il caso del Salvator Mundi di Leonardo, venduto al Louvre di Abu Dhabi e attualmente rinchiuso in un caveau in Svizzera) e anche la musica fa la sua parte : dal libro emerge come sale da concerto e teatri d'opera di nuova costruzione siano diventati merce di scambio in senso geopolitico, e come musicisti di fama mondiale si prestino alla propaganda di regimi non democratici.

Un libro eccellente quanto scomodo come Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga : il nuovo soft power (add, Torino 2021) del ricercatore francese Antoine Pecqueur, lascerebbe apprezzare, in sé, la differenza tra una democrazia – fondata sulla libertà di parola e di stampa, anche nel caso si debbano rivelare fatti sgraditi alle élite dominanti – e un regime autoritario. La funzionalizzazione dell'arte al potere fa parte di quegli argomenti che le autocrazie che si stanno moltiplicando ovunque nel mondo – anche all'interno dell'Unione Europea – terrebbero a non rendere espliciti : che un libro come questo possa circolare, essere letto e far discutere, costituisce una prova incoraggiante della perdurante vitalità, malgrado la sua attuale impopolarità,  del pensiero critico. Nel momento in cui le sirene in circolazione nel vasto mare della cultura mondiale si spacciano per virtuose e disinteressate, tutte comprese nel duro servizio dell'arte, Antoine Pecqueur spinge a domandarsi se per caso dietro il loro canto non si nasconda qualcosa che non ha a che vedere né con l'arte né con la virtù.

Se è da sempre evidente come l'arte e la cultura non siano politicamente neutrali – l'atto stesso di dare “forma” a qualcosa, cioè di selezionare, combinare e orientare gli elementi della realtà in un oggetto artistico è già politico -, è chiaro del pari come il potere preferisca non tematizzare l'asservimento dell'arte e della cultura ai suoi fini di dominio, facendo anzi come se queste fossero libere e convenissero spontaneamente con i suoi scopi. Pecqueur, con una grande mole di documenti che passa al vaglio tutto il mondo, dall'Europa all'America, all'Africa, alle monarchie del Golfo, alla Cina, alla Russia, svela proprio quello che le élite vorrebbero tenere celato, cioè che la cultura mondiale – dove in maniera più aperta e spudorata, dove in maniera più sfumata – partecipa attivamente al rafforzamento e alla celebrazione dei vari sistemi di potere, anche nel caso che tali sistemi siano antidemocratici e violenti.

Ma questo, si dirà, è una costante della storia. Durante i quattro secoli che vanno dalla fine del Trecento alla Rivoluzione francese, con prolungamenti vari nell'Ottocento (basti pensare al rapporto di Wagner con Ludwig II di Baviera), l'arte è stata un'arma irrinunciabile delle classi dominanti, che se ne sono servite appunto per assicurarsi quel prezioso “soft power” capace di elaborare idee, valori, schemi comportamentali, efficacia propagandistica, stendendo sugli “orrendi leviatani dalle viscere di bronzo” (Hobbes) la patina nobilitante della bellezza artistica. Molta parte della cultura tra l'inizio del Quattrocento e la Rivoluzione francese è sintonizzata sugli interessi delle classi dominanti, cioè l'aristocrazia e le élite ecclesiastiche, e produce capolavori per conto e a vantaggio esclusivo dell'unica parte della società ammessa al godimento di diritti. In un certo senso, siamo tutti ancora beneficiari di questo patto faustiano tra arte e potere : in mancanza di tale patto, non avremmo l'Orlando furioso di Ariosto, la Cappella sistina, le Stanze di Raffaello, i meravigliosi ritratti di Piero della Francesca di Federico da Montefeltro e Battista Sforza, colti di profilo sullo sfondo delle loro terre ; non avremmo il madrigale del Cinquecento, mottetti e chanson dei maestri fiamminghi, la Missa Hercules Dux Ferrariae con cui Josquin Desprez rende omaggio a Ercole D'Este, traendo il cantus firmus della Messa dalle sillabe del nome dell'illustre dedicatario. Senza il patto tra musica e potere non avremmo la gran parte della produzione di Haydn (che però, non appena ne ebbe la possibilità, si sciolse dal vincolo che lo legava alla famiglia degli Estérhazy), le cinquecento Sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti (scritte per la corte portoghese e poi spagnola), le opere di Spontini che celebrano Napoleone e inaugurano con il Fernand Cortez il filone dell'esotismo operistico ; non avremmo l'immane quantità di arte e cultura dedicate in Francia alla celebrazione del Re Sole ; non avremmo i Quartetti “Razumovsky” di Beethoven (che però trattava dall'alto in basso i suoi mecenati).

Non è un caso, tuttavia, che non appena se ne creava la possibilità gli artisti dei secoli passati si affrettassero a recidere il loro legame con il potere politico. Il mecenate gratificava infatti chi lavorava per lui di un “beneficio”, cioè una rendita che lo sollevava dai bisogni materiali, ma chiedeva in cambio a pittori, letterati, architetti e musicisti di rinunciare alla libertà : legandosi al potere, gli artisti sapevano benissimo di non essere più padroni di elaborare idee e affermare valori potenzialmente in contrasto con gli interessi del loro committente. Non tutti accettavano supinamente questo vincolo ; si potrebbe anzi dire che la maggior parte degli artisti di questi quattro secoli patisse la limitazione della libertà come un giogo duro da sopportare. Tanti fanno resistenza, Bach si ribella più volte ai capricci dei suoi protettori, ma il caso più clamoroso di una brusca risoluzione da parte di un musicista del contratto di dipendenza da un protettore è il famoso “calcio nel sedere” che Mozart riceve da un uomo di mano del suo mecenate, l'Arcivescovo Colloredo, quando comunica che non intende più proseguire il servizio. Il padre di Mozart, un uomo dell'Ancien Régime, se ne dispera, ma il figlio non fa che scrivere lettere dove si inneggia alla conquistata “libertà”. Da allora, la dipendenza di un musicista da un mecenate sarà un'eccezione : c'è, come dicevamo, il rapporto di Wagner con Ludwig II di Baviera, ma lo stesso Wagner comincia la sua turbolenta carriera facendosi sorprendere dalla polizia di Dresda mentre combatte sulle barricate accanto ai rivoluzionari di Bakunin, e la totalità degli altri artisti romantici preferisce morire in povertà pur di non abdicare alla propria autodeterminazione.

Le cose nel Novecento sono più complicate. Nel “secolo breve” le liaisons dangereuses tra arte e potere stritolano l'arte in un abbraccio fatale. I totalitarismi – quello fascista in Italia, quello nazista in Germania, quello staliniano in Russia – elaborano infatti una politica culturale che non solo impone limiti alla libertà d'espressione ma prescrive addirittura agli artisti un canone estetico da seguire. Tragico il caso di Shostakovich e Prokofiev in Russia, costretti a comporre opere celebrative in nome del “realismo socialista”, e minacciati dal regime nel caso di lavori non graditi : Shostakovich scrive con la Lady Macbeth del distretto di Mzensk (1936) un capolavoro del teatro musicale del Novecento, ma si attira un articolo sulla Pravda che equivale a una condanna netta della sua arte (“Caos anziché musica”) e a una minaccia per la sua stessa vita. Terribile anche il caso degli artisti tedeschi durante il nazismo. Pochi furono quelli che, non accettando di piegarsi al regime hitleriano, emigrarono all'estero : Erich Kleiber (padre di Carlos), Thomas Mann, Arnold Schönberg, Theodor Wiesengrund Adorno, Bertolt Brecht, Kurt Weill, Fritz Lang e altri registi, uomini di teatro, intellettuali, filosofi, musicisti ; molti di più furono quelli che scelsero la più comoda via della cosiddetta “emigrazione interna”, cioè si ritirarono nel loro privato senza collaborare con il regime ma senza fare opposizione. Si discutono ancora i casi di Richard Strauss, chiuso tranquillamente a comporre nella sua villa a Garmisch e convinto che la sua fama l'avrebbe protetto dagli appetiti nazisti, e di grandi compositori come Hans Pfitzner e Carl Orff o sommi direttori come Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler, schierati più o meno convintamente con il nazismo. Klaus Mann, figlio di Thomas, fornisce un tragico apologo del destino che attende l'artista quando vende l'anima al diavolo, cioè al potere, nel bellissimo romanzo Mephisto, da cui István Szabó ha tratto nel 1981 un film con Klaus Maria Brandauer nella parte del protagonista.

Le democrazie nate dopo la guerra, proprio per evitare che l'arte venisse assoggettata nuovamente al potere, hanno elaborato un sistema di sostegni e sovvenzioni statali ramificati in una ragnatela di istituzioni con cui il committente e il destinatario dell'arte, il beneficiario delle sue creazioni, è diventata la collettività nel suo complesso. Purtroppo questo sforzo non è valso, come dimostra molto bene il libro di Pecqueur, a fare apprezzare la libertà agli artisti al punto da rendere loro indesiderabile di piegarsi al potere. La differenza, rispetto al passato, non riguarda tanto quello che il singolo è disposto a fare – il libro mostra quanto disponibili verso il potere siano gli artisti sotto tutti i cieli -, ma la scala degli interessi politici coinvolti, la magnitudo del potere servito, che per la prima volta è mondiale. Non è infatti più questione del solito sinolo “arte e politica”, come ai tempi di Machiavelli, ma di quello più ominoso “arte e geopolitica”: « Questo atlante viaggia attraverso i continenti per decifrare la situazione geopolitica che si va delineando. Nelle pagine che seguono scopriremo che le Nuove vie della Seta sono anche un megaprogetto culturale, che la costruzione di musei accende le rivalità tra le petromonarchie del Golfo, che i Paesi del Gruppo di Visegrád (un'alleanza politico-culturale tra Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia) stanno dando forza all'ideologia nazionalista proprio attraverso le arti ». Pecqueur nota giustamente che proprio il perseguimento cieco e senza scrupoli dei propri interessi geopolitici da parte delle cosiddette “democrature”, cioè paesi che negano la democrazia sia come organizzazione statale che come valore, rende particolarmente preziosa la capacità dell'arte di elaborare una mitologia intorno al potere che possa in qualche modo nobilitarne le azioni. È così che, a parere dell'autore, l'arte si sta trasformando da soft power a hard power, una sorta di parente stretto della guerra : anch'essa pretta, svilita, “prosecuzione della politica con altri mezzi”.

Particolarmente impressionante e gravido di implicazioni etiche il connubio tra musica e potere nel caso delle dittature cinese e russa, che perseguono una politica così aggressiva da spingere l'amministrazione Biden a un drastico cambiamento nella scala delle priorità nella politica estera statunitense. Impegnata in una serie di guerre, azioni militari, provocazioni, gesti di soppressione del dissenso e di negazione della democrazia (le ultime elezioni russe, concluse qualche giorno fa, sono state giudicate “le più truccate della sua storia”), la Russia ha un grande bisogno di artisti che forniscano il regime di una facciata presentabile. « Valerij Gergiev è uno degli uomini più potenti della Russia. […] Vicino a Vladimir Putin, di cui è una sorta di ministro ombra, Gergiev esercita la sua influenza in campo politico ed economico. Non è un caso che nel 2018, nel bel mezzo della crisi tra Russia e Francia, Emmanuel Macron lo abbia invitato a cena all'Eliseo : era perfetto per far arrivare messaggi direttamente a Vladimir Putin ». Gergiev non si tira indietro nemmeno quando c'è la guerra di mezzo. « Nel 2008, mentre la Russia conduce l'offensiva contro la Georgia in Ossezia e Abkhazia, il direttore d'orchestra, di origine osseta, tiene un concerto a Tskhinvali, in Ossezia del Sud. La scelta di Tskhinvali è simbolica : fu proprio l'attacco a questa città da parte delle truppe georgiane il casus belli. Prima del concerto Valerij Gergiev ha tenuto un discorso : intorno a lui gruppi di bambini, militari e rappresentanti della Chiesa ortodossa fra il pubblico, la bandiera russa a fare da sfondo, la messa in scena era perfetta. In russo e poi in inglese, Gergiev ha definito l'atteggiamento della Georgia un “atto di aggressione”… La musica porta la memoria di coloro che sono morti in battaglia », ha continuato il direttore d'orchestra, prima di dirigere una sinfonia di Čaikovskij : « musica russa, per sottolineare ulteriormente il potere culturale del paese », commenta Pecqueur. Del resto, lo stesso Gergiev tiene a elogiare pubblicamente il suo illustre protettore : « Putin è molto pragmatico e ha capito che la cultura era l'unica cosa che la Russia non aveva ancora perso. A mio avviso, è uno dei pochi politici che potrebbe evitare che il Paese si disintegri. Lo rispetto per quello che ha fatto in molti campi, specie – e soprattutto ! – nella cultura. Negli ultimi anni, il nostro Paese ha ritrovato un ruolo sullo scacchiere internazionale, siamo tornati a farci sentire ». Chissà se in questo positivo “tornare a farsi sentire” della Russia è incluso per Gergiev anche l'assassinio politico, come quello della spia Aleksandr Litvinenko, avvelenato su commissione del governo russo con il polonio-210, o quello della giornalista anti-regime Anna Politkovskaja, freddata con un colpo di pistola in pieno viso, o il recente tentato assassinio del maggior oppositore politico di Putin, Aleksej Naval'nyj, oggi rinchiuso in prigione. Impressionante la pagina 35 del libro di Pecqueur, dove una tabella mostra impietosamente la corrispondenza tra i concerti e i discorsi a favore di Putin tenuti da Gergiev, e alcuni dei più terribili fatti della storia recente che vedono implicata la Russia. Ha ragione lo studioso francese : a questo livello l'arte non è più un soft power ma un hard power come quello delle bombe e dei fucili, altrettanto esplicito, altrettanto brutale.

Ben in vista, e non particolarmente lusinghieri per lui, anche i rapporti tra il regime cinese e il suo artista di punta, il pianista Lang Lang. La Cina è la prima economia del mondo e tutti conoscono, dall'inaudita pressione esercitata a favore del 5G agli accordi denominati “Via della Seta” (di cui probabilmente ci pentiremo), la sua capacità di esercitare un'egemonia sulle economie degli altri paesi. Negli ultimi anni la Cina ha attuato una penetrazione in Africa così profonda da impadronirsi prima delle sue infrastrutture, poi delle sue materie prime, e infine della sua cultura : l'autore del volume parla addirittura di “Cinafrica”, e purtroppo non è un'esagerazione : è inquietante pensare che a partire dal prossimo anno nelle scuole del Kenya la lingua cinese sarà inserita tra le materie principali. Se si accetta di vedere le cose per come stanno, è chiaro che Pechino non si fermerà al semplice dominio economico né dell'Africa, né del resto del mondo : l'obiettivo finale del Dragone è l'esportazione su scala mondiale di un'ideologia illiberale, di un sistema di valori civili fondato sulla sottomissione e l'obbedienza al regime, e di un'articolazione statale dove non è prevista né permessa nessuna forma di dissenso. L'arma principale della penetrazione culturale cinese in tutto il mondo sono gli istituti “Confucio”. Il primo Istituto Confucio in Africa è stato costruito a Nairobi nel 2005, nel 2018 si contano già 54 istituti in 33 paesi. « La scelta dei luoghi », osserva Pecqueur, « è strategica, ed è legata alle dinamiche degli scambi commerciali. E Pechino non pensa di fermarsi : prevede in poco tempo di arrivare a un centinaio di sedi ». Negli ultimi anni, però, si sono levate molte voci nel mondo proprio contro questi Istituti Confucio, accusati di essere di fatto delle centrali di spionaggio e di intelligence cinese. In questo senso è del tutto condivisibile il grido di allarme di Pecqueur : quelli che sulla carta sono “scambi” culturali e commerciali con la Cina si  rivelano invariabilmente operazioni politiche favorevoli solo ai cinesi : « Ben lontana dall'essere una connessione tra diversi Paesi, ciò che sta prendendo forma attraverso questo intreccio di iniziative [l'autore si riferisce in particolare a una serie di scambi culturali bilaterali Europa-Cina] è la forza della morsa economica cinese : i treni che arrivano carichi in Europa e ripartono per la Cina quasi vuoti sono un esempio evidente ». Ma la Cina, come si è ben visto con Hong Kong (e forse si vedrà con Taiwan, se gli Stati Uniti non riusciranno a impedirlo), dove non arriva con la persuasione economica arriva con la pressione militare. Il “Quad”, cioè il quadrilatero formato dalle democrazie degli Stati Uniti, India, Giappone e Australia, e la nuova alleanza militare “Aukus” tra Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna (per cui arriveranno in Australia i sommergibili nucleari americani), sono iniziative volte proprio a contrastare l'espansionismo cinese.

« Cosa hanno in comune le star del pianoforte Lang Lang e Yundi Li o le attrici Zhou Xun e Zhang Ziyi, quest'ultima protagonista del film La tigre e il dragone ? Sono tutti cinesi ma hanno la residenza a Hong Kong », scrive Pecqueur. Pechino ha affidato infatti a questi artisti il ruolo ufficioso di ambasciatori, cercando di radicarsi nell'ex colonia inglese anche attraverso la propria presenza culturale : « Il regime », continua Pecqueur, « ha creato uno status di “residente speciale” per permettere agli artisti cinesi di mantenere la cittadinanza cinese e stabilirsi a Hong Kong, anche se lì non hanno un lavoro continuativo… L'operazione non si ferma a un pezzo di carta, perché tutti questi artisti si trovano alla ribalta negli eventi ufficiali. Lang Lang, per esempio, era con l'Orchestra Filarmonica di Berlino al grande concerto che ha celebrato il 20° anniversario del passaggio di Hong Kong alla Cina ». Il fatto che nell'ex colonia britannica si arrestino gli oppositori, si chiudano i giornali liberi, si vieti ogni forma di dissenso, si soffochi la ribellione degli “ombrelli gialli”, cioè dei giovani che non sono disposti a perdere la libertà, che nel suo stesso territorio la Cina sia accusata di pulizia etnica nei confronti della minoranza musulmana degli Uiguri, cui sono riservati trattamenti che non si vedevano dall'epoca dei lager nazisti, non interessa evidentemente a Lang Lang.

Come molti artisti convinti che la loro arte conti più di qualunque altra cosa – ultimo un architetto italiano, che in un'intervista pubblicata qualche giorno fa su Repubblica si rallegrava delle magnifiche opportunità offertegli dalla Cina, come se parlasse della Svizzera -, Lang Lang ignora il carattere sociale dell'arte e si comporta come se la musica non avesse alcun rapporto né responsabilità verso la realtà fuori dei suoni. La musica, cioè, vivrebbe nel suo iperuranio di alate corrispondenze formali e di inderogabili attuazioni di fini solo musicali : un mondo irenico, totalmente astratto e separato dalle dinamiche sociali. È un errore clamoroso, tanto più grave in quanto frutto di una deminutio inflitta alla musica stessa, una deliberata sottovalutazione del suo valore di grido contro l'ingiustizia e di prefigurazione di un mondo più umano. Non ci si può sbagliare : l'incanto della musica poggia su presupposti assiologici precisi, su un sistema di valori che fa parte del suo messaggio ed è incorporato profondamente nelle sue stesse strutture espressive. Ignorare gli assunti etici, ideali, libertari, umanistici, filosofici della musica, pensando che quanto ha da dire riguardi soltanto il mondo dei suoni e non costituisca uno sguardo critico puntato sulla realtà nel suo complesso, responsabilizzando chi la esegue e chi la ascolta, significa non capire le sue più profonde implicazioni. Il repertorio pianistico eseguito da Lang Lang è figlio delle conquiste dell'Illuminismo, della Rivoluzione francese e delle grandi idealità della generazione romantica : chi esegue Beethoven senza avvertire « nulla della borghesia rivoluzionaria… l'eco delle sue parole d'ordine… la tensione verso quella totalità nella quale dovrebbero essere garantite ragione e libertà, non lo comprende al pari di colui che non è in grado di seguire il contenuto prettamente musicale dei suoi pezzi » (Th. W. Adorno). La musica del Classicismo viennese, quella del Romanticismo e prima ancora quella del tardo Barocco di Bach e di Händel presuppongono i valori dell'humanitas illuminista libertà, uguaglianza, fraternità, giustizia -; onorano e chiedono di onorare quei valori ; tributano un rispetto assoluto e perfino un culto per l'umanità del singolo individuo cui si rivolgono, nel quale vedono racchiusa, come in uno scrigno, l'intera umanità. Pecqueur riporta giustamente questa sinistra dichiarazione del pianista cinese : « La musica migliora la vita. Guarisce, unisce e ispira e ci rende persone migliori. La musica è potente. Voglio che ogni bambino abbia accesso a esperienze musicali che accendano qualcosa di meraviglioso dentro di sé, proprio come la musica ha prodotto qualcosa di incredibile in me », una dichiarazione che stride drammaticamente a confronto con la realtà di oppressione e di violenza che lo stesso pianista cinese sta contribuendo a sostenere. Purtroppo per lui, vorremmo aggiungere, l'estraneità di Lang Lang allo strato valoriale contenuto nella musica occidentale, la sua indifferenza verso l'umanesimo annidato nella fibra dei brani che affronta, la sua incomprensione di ciò cui rimandano i simboli musicali in una tensione che non si potrebbe più esplicita e più eloquente, vengono fuori tutte nelle sue esecuzioni : mancate, nel senso in cui lo si dice di un colpo che non centra il bersaglio.

Questo libro, da leggere assolutamente, fa riflettere sulla funzione dell'arte e della musica, sull'appello muto che promana dai suoni. Lo splendore della musica non è astratto e sconnesso dalla consapevolezza della realtà sociale, dal patto implicito che lega chi compone, chi esegue e chi ascolta, dal desiderio di curvarsi sull'umanità sofferente e sollevarla dai suoi dolori, dall'obbedienza alla legge morale dentro di noi e al cielo stellato sopra di noi. La musica è necessariamente connessa con un'intenzione etica, non può passare sopra la sofferenza di un solo essere umano per inseguire un sogno di potere, fosse anche questo la più seducente rappresentazione del migliore dei mondi possibili. Scrive uno che non sarebbe piaciuto né a Putin né a Xi Jinping : « Precetti. Fare il bene ogni volta che sia possibile, amare la libertà sopra di tutto, non rinnegare mai la verità, neanche ai piedi del trono » (L. van Beethoven, 1793).

 

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Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.

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