Gioachino Rossini (1792–1868)
Elisabetta Regina d'Inghilterra (1815)
Dramma per musica in due atti
Libretto di Giovanni Schmidt da Il paggio di Leicester di Carlo Federici, tratta dal romanzo The Recess (1785) di Sophia Lee.
Prima assoluta il 4 ottobre 1815 al Teatro San Carlo di Napoli
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi.
a cura di Vincenzo Borghetti.

Direzione musicale : Evelino Pidò
Regia : Davide Livermore
Scene : Gió Forma
Costumi : Gianluca Falaschi
Video : D‑WOK
Luci : Nicolas Bovey

Elisabetta Karine Deshayes
Leicester Sergey Romanovsky
Matilde Salome Jicia
Enrico Marta Pluda
Norfolc Barry Banks
Guglielmo Valentino Buzza

Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del coro : Giovanni Farina

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI

Coproduzione con Fondazione Teatro Massimo di Palermo

Pesaro, Vitrifrigo Arena, domenica 8 agosto 2021, Ore 20 (Prova generale stampa & professionali)

Elisabetta, regina d'Inghilterra è una rarità sulla scena, anche nella Mecca rossiniana di Pesaro, poiché a mia conoscenza l'opera ha avuto una sola produzione, nel 2004. Ci sono poche registrazioni in circolazione, un DVD da Torino e un CD importato dall'Inghilterra. Questo dimostra l'interesse con cui si aspettava questa nuova presentazione dell’opera di cui generalmente si conosce solo l'ouverture tratta da Aureliano in Palmira, poi riutilizzata per Il Barbiere di Siviglia. Si sa anche che è un'opera molto difficile da cantare, soprattutto per la protagonista e per il tenore (o i tenori), e nel DVD è Rockwell Blake che canta Leicester…
In un lontano passato, nel 1975, ad Arles e a Londra, fu Montserrat Caballé a vestire i panni della regina, dopo Leyla Gencer e prima di Cuberli e Antonacci : questo basta per capire che per Karine Deshayes, la protagonista della giornata, si tratta di una sfida immensa.

 

La Queen (Karine Deshayes) in crisi, in mezzo a mobili disordinati, annegati, galleggianti, beh, in crisi anche loro 

In generale, le opere che mettone in scena Elisabetta I non hanno un lieto fine, come sa bene Maria Stuarda. Eppure Rossini (con il suo librettista Giovanni Schmidt) propone un lieto fine a quest'opera, poiché sancisce quel momento cruciale in cui la regina rinuncia all'amore per dedicarsi esclusivamente al suo popolo e diventare "la donna senza uomini".

La trama è abbastanza semplice : la regina è innamorata di Leicester (tenore, il buono), generale vittorioso, e pensa di poter ringraziarlo offrendosi come premio della sua vittoria, ma viene a sapere da un traditore, il migliore amico di Leicester, Norfolc, l'altro tenore (il cattivo, il Melot ((Il traditore nel Tristano e Isotta wagneriano)) che Leicester è segretamente sposato, e per di più con la figlia di Maria Stuarda. Il patibolo non è quindi così lontano per lo sfortunato generale.
Ma il popolo non vuole che Leicester sia suppliciato e presto verranno scoperti i piani dell'infame Norfolc, e allo stesso tempo la grandezza d'animo e la lealtà di Matilda, la moglie di Leicester. La regina capisce che un amore deluso ma leale è meglio che fidarsi di un traditore. Lei perdona e si guadagna i suoi titoli di statista. Si sa che la clemenza è il più alto strumento politico dell’uomo (o della donna) di Stato.

Karine Deshayes (Elisabetta)

Questa è più o meno la trama, che senza dubbio ha reso il personaggio di Elisabetta una grande figura operistica. Donizetti, che era un ammiratore (e all’inizio anche imitatore) di Rossini, non lo dimenticò, e la scena tra Matilde, la moglie di Leicester, ed Elisabetta sarà una fonte di ispirazione per future grandi scene delle sue opere.

Basta sapere che nel cast della prima napoletana, Elisabetta era Isabella Colbran, e Norfolc (il traditore) Manuel Garcia per capire il livello di difficoltà che stiamo affrontando. La Colbran aveva quella voce a metà strada tra il soprano e il mezzo, o almeno per quanto ne sappiamo un soprano dal timbro scuro, a quei tempi non c'era molta differenza tra soprano e mezzo. Oggi, solo Leyla Gencer, secondo me, ha reso davvero giustizia al vero colore del ruolo.

Tutto questo per sottolineare le insidie di un'opera la cui dimensione scenica non è nemmeno fissata : oggi viene presentata nell'immensa Vitrifrigo Arena, come uno "spettacolone", su un ampio palcoscenico con un’orchestra importante.  Ieri, nel 2004, è stato eseguito a Pesaro nell'Auditorium Pedrotti, la sala riservata ai formati minori.
Quindi a chi credere ?
Indubbiamente, presentandolo con Moïse et Pharaon nell'Arena Vitrifrigo, il Festival ha voluto rendere giustizia a un'opera da lui un po‘ trascurata, e scegliendo Davide Livermore come regista, ha voluto indubbiamente uno "grande spettacolo" con paillettes.
Il risultato ? Probabilmente dovremo aspettare la prossima produzione e un cast più adatto.

Karine Deshayes (Elisabetta)

La produzione di Davide Livermore opera una traslazione Elizabeth I/Elizabeth II, in linea con i film e le serie sulla famiglia reale britannica di oggi che hanno invaso i nostri schermi. Trasforma questa trama in una sceneggiatura per Netflix, un episodio aggiuntivo di The Crown o un sequel di The Queen. Per inciso, il cervo iniziale che appare in ombra cinese è un'allusione al film di Stephen Frears del 2006. E senza dubbio lo scenario di quel film, in cui il popolo impone una maggiore "flessibilità" a Elisabetta II di fronte alla morte di Diana, ha fatto riflettere (?) il regista, dato che nell’opera di Rossini la pressione del popolo è forte nel secondo atto per perdonare Leicester.

A Davide Livermore piace mettersi in mostra, con effetti video, luci e trucchi. Ho scritto altrove che i suoi spettacoli sono spesso "Le Folies Bergères dell'opera", speriamo solo che le Folies Bergères, quando producevano riviste, fossero un po' meglio. Perché quello che piace a Livermore qui non è la trama, non gli interessa, non sono i personaggi, non gestisce nemmeno i loro movimenti, sono gli effetti che ovviamente colpiscono nel segno, compreso il ridicolo…
Trattandosi di Buckingham Palace, scopriamo i mobili mezzi sepolti (come dopo un terremoto, emergendo dalla terra, o dall'acqua, come per mostrare che c'è una crisi, e che le cose non vanno né bene né dritto…

The Queen (Karine Deshayes) nel paese di Mary Poppins

Poi scopriamo che il palazzo è percorso da donne delle pulizie che puliscono alla maniera di Mary Poppins, in una sorta di inutile coreografia da commedia musicale che si ripete all'infinito. Noi preferiamo Mary Poppins.

Barry Banks (Norfolc) come Churchill…

A parte le cameriere, pare che Norfolc, l'infido cattivo, sia un sostituto di Churchill (Livermore stesso lo ha segnalato perché altrimenti non lo avrebbe pensato nessuno). Leicester è un generale medagliato, un vago principe Filippo in parata, che ovviamente arriva in aereo, poiché le cameriere continuano a guardare gli aerei (stile seconda guerra mondiale) che passano sopra il palazzo e che sembrano atterrare. Aerei vanno e vengono più volte come nella sfilata del 14 luglio in Francia, con le ripetute espressioni beate delle donne delle pulizie (senza dubbio alludendo al popolo allegro) come nelle operette di bassa classe : è pietoso, quasi indegno.

Trasformare questa trama in una specie di episodio di Netflix, perché no, dopo tutto, le avventure dei re dell'opera sono molto simili ad alcune serie TV, e Livermore non è il primo a trasporre. Ma lo fa con una tale esagerazione, una tale profusione di effetti inutili, una tale ignoranza volontaria della trama, senza mai interessarsi ai gesti, ai movimenti, e a un po' (solo un po') di psicologia. Un esempio tra gli altri, la regina Elisabetta vestita (o afflitta, a seconda della situazione) con un abito lungo come quello che indossa per i grandi ricevimenti, continua a salire e scendere i pochi gradini verso il suo trono, senza una ragione apparente, ma riempie il vuoto della messa in scena, per far vedere la sua regalità.
Nella prima parte.

Perché nella seconda parte, addio effetti e buongiorno noia. Poiché non c'è recitazione e non ci sono effetti, non c'è niente. Elettro-encefalogramma piatto. L'agitazione prima del finale, unico momento scenico che emerge, dove la gente si minaccia a vicenda con la pistola, è così mal gestita, così ridicola che si ha l'impressione di una parodia involontaria. Se solo…

Sedicente "grande" spettacolo. Karine Deshayes (Elisabetta)

Ecco una messa in scena inutile, un brutto esercizio di cattivo stile, la falsa modernità di un pensiero vecchio ricondizionato. Ma Davide Livermore sembra essere la “modernità del momento" su certi palcoscenici italiani e non ultimo La Scala, dove la mediocrità è oggi preferita alla modernità.
Il postulato di partenza avrebbe potuto essere interessante con un vero regista, cosa che Livermore ovviamente non è. Da dimenticare.

Musicalmente, non ci siamo nemmeno, anche se fortunatamente la musica è un gradino sopra la pretenziosa mediocrità della regia. È facile capire perché è stato scelto l'Auditorium Pedrotti nel 2004, dato che ci sono solo sei personaggi, di cui due meno importanti, e un coro non essenziale : sembra ogni tanto di essere in un huis-clos, un dramma a porte chiuse. Quest’opera di Rossini è difficile da collocare.
Abbiamo sottolineato la sua estrema difficoltà, la necessità di disporre di interpreti perfettamente in sintonia con le esigenze del repertorio : due tenori acrobatici nello stile di quelli che Rossini predilige, un soprano lirico e un soprano/mezzosoprano d’agilità per Elisabetta, dalla voce indefinibile, con la necessità assoluta che l'interprete imponga la sua autorità sulla scena attraverso il suo carisma.
La seconda parte dell'opera, più "cantabile" e lirica, una successione di arie e duetti, permette ai cantanti di dare un'impressione meno deludente del modo in cui hanno affrontato la prima, ma il tutto rimane comunque al di sotto di ciò che ci si dovrebbe aspettare in questo luogo.

Marta Pluda (Enrico), Salome Jicia (Matilde), Karine Deshayes (Elisabetta)

Marta Pluda nel ruolo episodico di Enrico (fratello di Matilde e quindi anche figlio di Maria Stuarda) e Valentino Buzza nel ruolo di Guglielmo ne escono con onore. I problemi vengono prima dai tenori.

Barry Banks assume il personaggio di Norfolc, il cattivo (a giudicare dal modo caricaturale di camminare e di presentarsi, non è di sicuro un angelo). La voce è stridente, acida, troppo nasale, con un'agilità goffa, senza alcuna eleganza, e la sua prima entrata in scena è catastrofica. Fa meglio nella sua aria del secondo atto, All'amor che in voi s'annida, l'agilità è meglio impostata ma la voce non è molto grande, spesso coperta dall'orchestra, con un acuto tirato e registro grave senza colore.

Sergey Romanovsky (Leicester)

Sergey Romanovsky è un artista che ci ha spesso sedotto, in particolare nel suo Don Carlos a Lione, ma anche a Pesaro di fronte a Juan Diego Florez come Agorante in Ricciardo e Zoraide. Era una delle grandi speranze del canto rossiniano. La sua entrata in scena nel primo atto lascia un momento di incomprensione. Fisicamente è un po' più massiccio di qualche anno fa, la voce è diventata più scura, il timbro ha perso qualità e soprattutto luminosità e rimane estremamente cauto, spesso inespressivo, quasi timoroso.
Nella sua aria della seconda parte, Della cieca fortuna, ritroviamo un po' di più l'interprete contenuto, l'eroe un po' cupo, e soprattutto gli acuti magnificamente tenuti, con una bella linea di canto e un senso drammatico più spiccato, che si conferma nel duetto con Norfolc Deh scusa i trasporti, Si afferma alla fine con una voce autentica adatta al personaggio e come un cantante che sa dare senso a ciò che canta (uno dei pochi su questo palcoscenico), il duetto con Norfolc (che fa da contraltare al duetto Elisabetta/Matilde) rimane uno dei punti forti dell'atto, grazie a lui. Ma nell’insieme Romanovsky ha perso un po' di singolarità.
Quando si canta Rossini, bisogna attenersi ad esso – cantare il bel canto ma non oltre. Se si guarda alla carriera di Florez, il riferimento in questo campo, ha assunto diversi ruoli fuori dal suo solito repertorio molto tardi (Werther ecc.…) e ha mantenuto la sua voce per molto tempo con una freschezza e duttilità sorprendenti. Romanovsky è stato molto applaudito dal pubblico, ed è bene, ma rimane comunque una delusione.

Karine Deshayes (Elisabetta) Salome Jicia (Matilde)

Salome Jicia è l'unica del cast con un forte senso drammatico e una vera sensibilità interpretativa. Certamente il suo intuito drammatico era più adatto alla sua Semiramide del 2019 che a questo ruolo di Matilde, che fa di lei un'eroina più sottomessa, più lirica anche, più tenera. Non so se la tenerezza le si addica molto sul palcoscenico… Resta il fatto che dal punto di vista del canto, dell'intensità, dell'impegno e del colore, è la più convincente di tutti, l’unica all'altezza della sfida.

Karine Deshayes (Elisabetta)

Karine Deshayes, invece, non avrebbe dovuto imbarcarsi nell'avventura. Il ruolo non le si addice molto.Non ha l'autorità scenica adatta a questo tipo di ruolo : questo non sarebbe troppo grave se fosse ben diretta da un regista interessato ai personaggi e all'opera, e non ai suoi effetti da quattro soldi. Ma è abbandonata a sé stessa da Livermore, che non sa come gestire le cantanti : si limita a farla assomigliare vagamente a Elisabetta II. È quindi è un po' goffa nei suoi gesti e movimenti, non la si sente al suo aggio nel personaggio.
Dal punto di vista del canto, non è sufficientemente interiorizzato, non incarnato, con espressione poco convincente, accenti spesso assenti (e con dizione problematica).

Vocalmente è a suo agio nelle agilità quando sono centrali, nelle parti più "cantabili" e a questo proposito il duetto nel secondo atto con Matilde è davvero bello, l'unico momento un po' commovente. Quando è nel suo registro, le cose vengono davvero bene, con grande facilità, nobiltà e precisione anche, ma il registro acuto, così tanto sollecitato in questa parte, è più corto e teso.

La creatrice del ruolo, la Colbran, aveva acuti stratosferici e bassi profondi per quanto sappiamo dai ruoli che Rossini le ha dato, la Gencer aveva un timbro scuro e gravi sonori e profondi, ma acuti straordinari, particolarmente drammatici. La Caballé è stata una regina del bel canto, ma ci si dimentica spesso che ha cantato Sieglinde di Valchiria e Strauss quando era in Germania, cioè era dotata di un ampio spettro vocale, e la Antonacci ha sempre compensato i pochi limiti vocali che talvolta aveva con una straordinaria arte della recitazione, accenti e personalità scenica. Tutti erano dotati di una vera personalità scenica, inconfondibile.

Al di là della sua insufficiente presenza scenica, Karine Deshayes rimane un mezzosoprano (e il ruolo non è quello di un mezzo) e troppo fragile nel registro acuto per affrontare Elisabetta : ha le note, ma le tiene male, mentre il carattere del ruolo dovrebbe essere affermato in note acute sostenute, con un bel appoggio. Così la sua aria finale, che dovrebbe ovviamente essere brillante, manca di appoggio e di acuti ampi e trionfali : qui, invece di allargarsi, la voce si restringe notevolmente. Peccato.

Questa serata era una prova generale per tutti, l'ultimo momento prima delle rappresentazioni, con le fragilità intrinseche della situazione. Possiamo solo sperare sinceramente che tutti siano stati in grado di affermarsi meglio durante le rappresentazioni.

Nella buca, Evelino Pidò garantisce un'esecuzione impeccabile dell'orchestra, oltre a una vera fluidità, soprattutto nel modo in cui alterna recitativi e arie. L'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI è davvero eccellente, particolarmente chiara, senza alcuna scoria. L'ensemble è quindi molto quadrato, sostenendo bene i cantanti : qui riconosciamo il direttore d'opera che ha mestiere.

Inoltre, nella famosa ouverture, sa colorare la partitura in modo diverso per non andare verso lo stile buffo, e riesce ad accentuare le parti un po' più consone alla trama, il che dà un'ouverture che non è "né del tutto uguale (al Barbiere, cioè) né del tutto altra".

Ma d'altronde, anche se tutto è tecnicamente controllato per facilitare il comfort dei cantanti, rimane un po' piatto nel far sentire e apprezzare la scrittura di Rossini, soprattutto la seconda parte, che a volte è un po' noiosa e lineare. È vero che Rossini non ha sempre scritto qui la sua musica migliore, ma forse si sarebbe voluto più rilievo, più colore, più contrasto e meno routine in certi momenti. Si ha l'impressione che sta principalmente attento ad accompagnare, piuttosto che trascinare. Resta il fatto che la direzione è l'elemento meno discutibile della serata, insieme a Salome Jicia.

Ancora una volta è chiaro che Rossini è difficile, e che un'opera così delicata come Elisabetta, regina d'Inghilterra è stata tristemente sprecata. Forse la direzione del Festival avrebbe dovuto aspettare più tempo per garantire una proposta con interpreti più coerenti e affidabili e scegliere un vero regista. Non abbiamo visto né sentito una rappresentazione da Festival.

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