Programma

Igor Stravinskij (1882–1971)
Apollon musagète (version révisée de 1947)

  • Quadro primo
    • Naissance d'Apollon
  • Quadro secondo
    • Variation d'Apollon (Apollon et les Muses)
    • Pas d'action (Apollon et les trois muses : Calliope, Polymnie et Terpsichore)
    • Variation de Calliope (l'Alexandrin)
    • Variation de Polymnie
    • Variation de Terpsichore
    • Variation d'Apollon
    • Pas de deux (Apollon et Terpsichore)
    • Coda (Apollon et les Muses)
    • Apothéose.

Dimitri Šostakóvič (1906–1975)
Sinfonia N.5 in re minore , op. 47
Moderato
Allegretto
Largo
Allegro non troppo

Berliner Philharmoniker

Berlin, Philharmonie, Sabato 23 gennaio 2021 (streaming Digital Concert Hall)

Qualche anno dopo il suo ultimo concerto, Daniele Gatti torna sul podio dei Berliner Philharmoniker per dirigere un programma apparentemente strano e quasi paradossale Stravinskij/Šostakóvič, il neoclassicissimo e sereno Apollo Musagète di Stravinskij e l’angosciante Sinfonia n. 5 di Šostakóvič, eseguita in prima assoluta il 21 novembre 1937, l'anno delle grandi purghe staliniane da cui scampò miracolosamente. Forse un classicismo di figure imposte permette questo accoppiamento di due opere a 10 anni di distanza, dei due mostri sacri della musica russa del XX secolo, uno che ha scelto di andarsene e l'altro che ha scelto di restare malgrado tutto. Tutto quel nodo di drammi e contraddizioni si nasconde dietro questo programma, il cui tono è finalmente abbastanza in linea con i tempi che stiamo vivendo.

Daniele Gatti a capo dei Berliner il 23 gennaio scorso

 

Per meglio apprezzare, si consiglia di vedere il concerto sulla Digital Concert Hall dei Berliner Philharmoniker (a pagamento, 9,90€ /7 gg fino a 149€ all’anno):
https://www.digitalconcerthall.com/en/concert/53138

 

n quattro mesi, tre sinfonie di Šostakóvič sarebbero una coincidenza di programmazione ? Se la sinfonia n. 9 era inclusa nel programma previsto, se era inclusa anche la sinfonia n. 5, a novembre fu aggiunta la n. 8, dando un chiaro segno che questa musica tesa e drammatica era in linea con il tono del periodo che stiamo attraversando. Le tre sinfonie molto diverse tra loro, inoltre, ci permettono di continuare ad approfondire la conoscenza del compositore russo, a lungo discusso in Occidente a causa dei suoi rapporti contrastanti con il regime sovietico e in particolare quello di Stalin.

Šostakóvič ebbe una carriera fatta di alti e bassi, e con una resilienza oggi poco comune e comunque sempre profondamente legato alla terra russa, invece la carriera di Stravinskij è più luminosa, vagando tra la Francia e l'Europa, poi negli Stati Uniti dal 1940 in poi : Stravinskij è un "Wanderer" che tocca tutti i generi e gli stili, e diventa abbastanza presto una delle glorie indiscusse del XX secolo musicale. Quando compose Apollon musagète, era indiscusso in Francia, e anche nel 1947, quando vi lavorò di nuovo, vivendo negli Stati Uniti dal 1940.

Tra queste due figure c'è un'innegabile tensione artistica, politica e culturale. E questo concerto ne è un'illustrazione, se non una dimostrazione.

Ancora una volta, ci si deve interrogare sulla scelta del programma. Ci si può sorprendere nel vedere questo sereno balletto neoclassico composto nel 1928 ma rielaborato nel 1947 (questa è la versione che viene proposta) di fronte a una sinfonia di Šostakóvič composta e creata tra le minacce, e all'epoca delle grandi purghe del regime di Stalin. Eppure…

 

Apollon musagète

Apollon musagète è una musica che si dà come "neoclassica", un balletto "classico", balletto "bianco" nella tradizione del balletto romantico. Conosciamo l'importanza del balletto nella carriera di Stravinskij : la musica da balletto lo ha portato rapidamente al vertice della "modernità musicale". Il balletto ha avuto la sua prima assoluta a Washington nell'aprile del 1928 ed è stato riproposto a Parigi due mesi dopo dai Ballets russes di Diaghilev con una coreografia di Georges Balanchine diventata un punto di riferimento, che ha percorso tutto il XX secolo con adattamenti sempre più raffinati.

Il tema è semplice, si tratta di presentare il Dio Apollo, come Dio delle arti, della musica, della poesia, come "musagète" (Μουσαγέτης), che guida le muse e in qualche modo le fa agire. Così vedremo non nove muse ((Calliope, Clio-Storia, Erato – Poesia Lirica -, Euterpe – musica -, Melpomene – Tragedia e Canto -, Polimnia, Tersicore, Thalia – la Commedia -, e Urania – Astronomia)) ma solo tre : Calliope (Poesia Epica), Tersicore (Danza), e Polimnia (Retorica ed Eloquenza).

La partitura di Stravinskij segna un nuovo corso nell'approccio del compositore, anche se era già stato abbozzato da Pulcinella, che scavava nel XVIII secolo e nei suoi echi barocchi. Qui il balletto non è più un'occasione di irruenza o di lavoro ossessivo sul ritmo, ma la musica appare contenuta, elegante, rasserenata. In breve, Stravinskij stava passando dall'atmosfera dionisiaca dei primi balletti, in particolare la Sagra della Primavera, all'atmosfera apollinea più regolata e più rigorosa.

Gli anni 1920–1940 furono in Francia un periodo di ritorno dall'antichità e dai miti antichi sia nella letteratura che nella musica : l'Œdipus Rex di Stravinskij fu presentato per la prima volta a Parigi nel 1927 e in una versione scenica a Vienna due mesi prima dell’ Apollon Musagète, possiamo pensare all'Antigone di Honegger e Bacchus et Ariane di Albert Roussel e molti altri. Ma in letteratura è anche un periodo in cui i miti antichi vengono reinterpretati (Jean Cocteau naturalmente, ma anche Jean Giraudoux e Jean Anouilh e jean-Paul Sartre un po' più tardi. In pittura, Max Ernst ha dipinto un Œdipus Rex nel 1922. Il periodo si presta dunque a questo ritorno all'antico, ma non necessariamente a un ritorno a un'antichità che suonerebbe passatista, ma al contrario decisamente attuale e moderna. La produzione artistica spesso utilizza l'antichità per analizzare la modernità. Eppure, in Apollon musagète, il balletto si offre ad essere visto, così come la musica, nella sua forma plateale, nella sua organizzazione, senza intenzionalità se non quella che abbiamo davanti agli occhi e nelle orecchie. Tutto il contrario dell'opzione di Šostakóvič, come vedremo.

Stravinskij ha spiegato la genesi di questo balletto in dettaglio in “Cronache della mia vita” (1936). Gli fu commissionato dalla Fondazione Elizabeth Sprague Coolidge di scrivere un balletto che doveva durare non più di 30 minuti e con un numero limitato di ballerini per un Festival di musica contemporanea alla Biblioteca del Congresso di Washington. Quindi è comprensibile che solo tre delle nove muse siano coinvolte. Stravinskij pensava da tempo di scrivere un balletto nella tradizione accademica, e colse l'occasione.

Più che l'antichità, il riferimento è il classicismo francese, che è una reinterpretazione dell'antichità, specialmente l'epoca di Luigi XIV, il Re Sole. Ciò che interessava a Stravinsky era riscoprire formalmente lo stile della musica barocca, che era molto “sapiente” nelle sue forme, e in particolare ritrovare nella musica i segreti della versificazione francese dell’epoca, soprattutto il verso alessandrino. Così (e Gatti lo spiega nell'intervista che rilascia prima del concerto, che sarebbe interessante ascoltare) Stravinsky costruisce la sua musica intorno giambo, che è un piede di due sillabe, una breve, una lunga (∪ —)

Questo è il piede usato nel teatro, specialmente nella tragedia (uso del trimetro giambico dai greci, come il verso alessandrino dai francesi). Quindi Stravinsky cerca una ritmica, – per un balletto, è ovvio – ma musicalmente questo impone una lettura molto stretta della partitura, perché la forma originale sarà sviluppata, adattata, facendo costantemente riferimento a questo dato originale. Questo richiede quindi una forte concentrazione da parte dell'orchestra, ma anche un ritmo serrato da parte del direttore che deve, qualunque sia la variazione, ritrovare costantemente il ritmo originale.

Daniele Gatti propone una lettura letterale del balletto nel senso che rifiuta una lettura che sarebbe diluita nel sensibile, cerca al contrario questa letteralità che Stravinsky esige, e che crea un'atmosfera controllata, strana perché allo stesso tempo serena e tesa.

Il balletto ha una parte iniziale abbastanza lunga, un racconto musicale della nascita di Apollo : come per caso, è il Dio delle arti, della regola artistica, del rigore (in contrapposizione a Dioniso, la linfa creativa sfruttata da Stravinsky nella Sagra della Primavera, dionisiaco per eccellenza, poiché Dioniso è il Dio della Primavera). In un certo senso, Apollon musagète è in questo senso l'anti-Sagra : Stravinsky sceglie di esprimersi nelle forme che sceglie secondo i suoi desideri e la sua libertà artistica. C'è qualcosa dell’OuLiPo ((acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero "officina di letteratura potenziale": è un gruppo (non ristretto) di scrittori e matematici di lingua francese che mira a creare opere usando, tra le altre, le tecniche della scrittura vincolata detta anche a restrizione. ‑Definizione di Wikipedia-)) in questo lavoro, quello di creare una regola per imporla a se stessi in nome della propria libertà di scelta. E Gatti propone un'opera completamente controllata nella regola imposta. Conosciamo il suo gusto per Stravinskij (doveva presentare Rake's progress a Roma lo scorso autunno, annullato per la causa sanitaria ormai ben saputa e risaputa), e qui si costruisce, non senza civetteria, questo balletto che, come Pulcinella, si immerge certamente in forme del passato, ma che qui è più che un semplice esercizio di stile, è quasi un esercizio di grammatica musicale.
Questo è comprensibile nella struttura del pezzo, nell’organico dell'orchestra che fu definitivamente stabilizzato in occasione della prima berlinese (Klemperer…), pezzo affidato esclusivamente agli archi, necessariamente collettivi, ma con un gioco particolarmente sottile sulle voci, alternando il collettivo e il solista, o addirittura il duetto.

Il balletto è composto grosso modo dalla più lunga parte iniziale, un'esposizione del viaggio di Apollo, ma anche un'esposizione delle forme con cui Stravinsky giocherà, una sorta di “didattica dello giambo”. L'approccio di Gatti è stupefacente, per un pezzo difficilissimo che ha qualcosa di quei giochi poetici dei poeti del Rinascimento o del Barocco francese che Stravinsky trasforma in gioco musicale.

Quindi ci vuole molto rigore e una profonda conoscenza delle regole della composizione se si vuole rendere esattamente ciò che Stravinsky voleva. E la performance di Gatti è tanto più notevole in quanto dirige "all'italiana" senza partitura. Non si tratta quindi di emozione, ma di un'impostazione molto rigorosa nel suono, di un gioco formale molto stretto, dove la forma è sostanza, perché il balletto classico è anche prima di tutto codice e forma, e perfetta omogeneità.
L'orchestra, del tutto straordinaria, riesce a dare un aspetto relativamente solenne a questo inizio (del resto la nascita di Apollo, visto da Stravinskij come il Re Sole, è un evento non privo di solennità (un momento alla Lully, come è stato spesso detto), pur rimanendo in relativa intimità, senza mai essere pesante, anche quando ci sono pause ritmiche o accelerazioni. Ciò che colpisce è l'affioramento che produce un suono appena abbozzato come una nascita che sarebbe allo stesso tempo la nascita di suoni e ritmi con una sorta di ascesa, che porta a un assolo di violino (un Daishin Kashimoto allo stesso tempo austero, trattenuto e mai dimostrativo eppure non esente da colori vari e direi “slavizzanti”).

Daishin Kashimoto, violino di spalla

Questa cadenza, ripresa in duetto (con Luíz Fïlíp Coelho) appare come un doppio discorso che fa una pausa sonora, accompagnato dai pizzicati dei contrabbassi, è un momento sospeso, di una sobrietà rara e tuttavia mai fredda in un continuum pure, come se dal collettivo si debba necessariamente finire nella singolarità, così come nel balletto ci sono parti affidate al corpo di ballo e altre ballate dai solisti. Inoltre, ogni parte dopo il prologo è nominata da indicazioni coreografiche e il movimento musicale imita i movimenti del balletto.

Non c'è in questa partitura la volontà di raccontare una storia di “antichità”, ma prima di tutto una storia di legame tra la danza e la musica, una storia di codici paralleli ; è forse anche per questo che la musica “da sola” spesso non commuove e che molti amanti della musica non sono sensibili all’esercizio : non tocca gli affetti e non parla all'anima ma allo spirito : è una musica "colta", dove la forma è l'alfa e l'omega. Ma in realtà una doppia forma, quella del balletto classico e quella della composizione musicale. Quindi le cose cambiano se si assiste al balletto (ovviamente nella coreografia cult di Balanchine) e forse si, nasce l’emozione dall’intreccio musica-danza.

Tra l’altro si può notare che si parla di passi nella danza classica e di piedi nella metrica e in questa musica, funziona passo/piede poiché tutto ruota intorno al piede iniziale, lo giambo. Divertente, vero ?

Dopo il prologo che è un'esposizione, in cui includeremo anche il pas d’action, dove Apollo, nato e molto presto adulto (se non subito), danza con le Muse, prima che inizino le loro variazioni. Nell'economia globale del tempo troviamo questa alternanza giambica tra il lungo e il breve, poiché i primi due momenti sono lunghi e tutti gli ultimi sono brevi.

È anche una sfida per l'orchestra in termini di concentrazione (basta guardare le facce concentrate nella ripresa televisiva) ma anche un piacere (ci sono i sorrisi, nei violini di fila), è un lavoro costante di ripresa delle voci degli strumenti, con l'attenzione molto sottile e mai rilasciata di Gatti ai volumi e ai livelli.

Così ogni momento dopo il prologo aggiunge colori all'impressione iniziale. Già il pas d’action è più lirico, fluido, il violino di Kashimoto prende colori, un magnifico finale articolato tra tocchi più brevi e acuti e risposte di archi gravi più lunghe, con un suono che alla fine sembra svanire.

Le due variazioni successive coinvolgono due muse, una (Calliope) che rappresenta la poesia epica (che ha una bella voce) l'altra (Polimnia) l'eloquenza e la retorica (che ha molti inni). Queste sono due aree in cui la voce è essenziale, la retorica usa anche la metrica per dare ritmo a certe frasi. In entrambi, la questione del lungo e del breve è centrale. La variazione di Calliope celebra il taglio alessandrino (6/6), così come le battute iniziali sembrano "mimarlo", con i suoi marcati ritmi giambici, ma si notano belle frasi al violoncello (Martin Löhr) sostenuto da violini di una rara leggerezza di tocco. Un dosaggio molto sottile di un'alchimia composta da Gatti.

La variazione di Polimnia (un allegro) è più agile, più veloce (un requisito del balletto che richiede anche alcuni momenti più dinamici) con una precisione da orologio dei violini, e anche qui un dosaggio molto elaborato dei diversi strati sonori. Questo è l'opposto di un approccio secco e freddo, anche se l'animazione è ritmica piuttosto che sentimentale.

La variante di Tersicore, un po' più sviluppata, ha il posto d'onore poiché si tratta della danza. La danza celebra la danza, e i suoi indissolubili alleati la musica in un allegretto con giochi timbrici e ritmici più diversi, anche più complessi, ma un'adeguatezza al passo (quattro momenti di arresto), un momento in cui l'orchestra è molto delicata e allo stesso tempo precisa, dove in un certo modo la musica impone una coreografia.

La variazione di Apollo (Serge Lifar nella creazione francese nella coreografia di Balanchine) ha un tono leggermente più solenne all'inizio e di nuovo la voce del violino rappresenta Apollo, in un momento di strana serenità, con un magnifico dialogo violino-contrabbasso (Janne Saksala).

Ci allontaniamo poi nel Pas de deux da una melodia che sarebbe un'imitazione di un classicismo seicentesco, ma molto di più (come vedremo nella successiva Coda) da una musica più colorata "anni venti", Stravinsky (lo scriverà spesso) non imita ma riutilizza le forme al servizio di una musica contemporanea, ancora con grande delicatezza un bellissimo intervento di Martin Löhr al violoncello. C'è un momento sospeso lì, un momento in cui la musica sembra essere più lirica, più "animata" (nel senso che mostra più anima). È chiaro che l'arte di Gatti qui è molto sottile, combina una preoccupazione formale e un raro rigore, senza mai cedere a troppi tremoli dimostrativi e dolci, rimane costantemente su una linea di cresta, fornendo in questo adagio un sapiente equilibrio tra linea melodica in primo piano e sordina, e un gioco del contrabbasso ancora una volta eccezionale che rende questo momento abbastanza straordinario. Si sente la musica e allo stesso tempo si sente il silenzio, come se il pezzo si giocasse alle frontiere del suono.

Il contrasto è tanto più netto con la Coda, come una musica di piacere che annuncia in un certo senso la fine. Siamo in un ritmo "vivace", in forma di marcia, con una melodia di grande modernità che non manca di ricordare a volte il suono leggermente jazzistico (ancora il contrabbasso!) di un Gershwin o di certe operette di quegli anni. Una dialettica oggi-ieri che mostra la costruzione volutamente contrastata nel tono che arriva persino a ricordare certe musiche da film. Respiro e gioia di vivere, il sorriso di oggi con il breve pizzicato finale e un ammorbidimento che annuncia l'Apoteosi, un “ritorno al solenne” e soprattutto un ritorno ciclico al prologo (qui è l'ascesa al Parnaso, sede delle muse). La familiarità scompare, i lunghi tratti hanno un aspetto quasi corale non privo di malinconia, anche qualcosa di crepuscolare, e particolarmente commovente : l'emozione nasce da questa ascesa ritmica al Parnaso : la musica è cantata in un ritmo di passi e sfuma in un diminuendo (quasi) wagneriano.

L'arte di Gatti consiste nel tenere a distanza tutta questa costruzione rigorosa, con le sue piccole contraddizioni. Un inizio alla Lully, una fine che svanisce alla Wagner. Si rimane stupiti dalla varietà di colori che trae dall'orchestra, anche quando si ha l'impressione (soprattutto all'inizio) di una certa monocromia più formale. Ciò che colpisce nel complesso è la straordinaria varietà di possibilità che trae da una musica che non sempre sembra ispirare adesione. Da una specificazione neoclassica, Gatti fa sentire un'evoluzione, un respiro molto sottile, mai dimostrativo, ma che a un certo punto fa entrare il cuore che sembrava escluso.

 

Šostakóvič, Sinfonia n.5 op.47

Ben altro esercizio che quello di Šostakóvič in questa quinta sinfonia…
Eppure…
Eppure, c'è qualcosa in comune nelle due opere, distanti una decina d'anni (che si consideri la creazione di Apollon musagète nel 1928 o la sua versione del 1947), è l'idea di una lista di requisiti. Con una differenza immensa lacerante : con Stravinskij, è lui che impone i requisiti, come esercizio della propria libertà di compositore, da Šostakóvič invece, sono requisiti imposti da altri nel clima di totalitarismo mortale del 1937, quello dei grandi processi e delle grandi purghe. Due figure imposte, dalla volontà del compositore da un lato e dal contesto dall'altro. Uno, Stravinskij, partì molto presto dalla Russia (prima della rivoluzione) e respirò la libertà della creazione in Francia (fu naturalizzato nel 1934) e presto negli Stati Uniti (dove risiedette dal 1940 e dove fece una revisione dell'Apollon musagète nel 1947). L'altro è rimasto in Russia e compone (al senso letterale ma non solo) con il totalitarismo e Stalin dalla sua parte.

La Quinta Sinfonia è il prodotto di questa situazione. All'epoca in cui componeva la sua sinfonia, aveva appena subito il terribile articolo su La Pravda che fermò la carriera della sua Lady Macbeth di Mzensk. Ricordiamo che questo ostracismo durerà per decenni, poiché in Russia, è con il titolo Katerina ismailova che l'opera rivista sarà presentata per la prima volta nel 1962 a Mosca : la morte di Stalin nel 1953 non ha tolto l'obbrobrio, mentre la versione originale fu eseguita per la prima volta in Occidente, a Düsseldorf, nel 1959.

Il 1937 fu l'anno delle grandi purghe e in particolare del processo a uno degli amici e protettori di Šostakóvič, il maresciallo Tuchačevskij, che fu condannato a morte e giustiziato nel giugno 1937, e con lui molti membri della sua cerchia di amici, tra cui Nikolai Jylaiev, al quale suonò la sua sinfonia incompiuta al pianoforte per un giudizio e un consiglio. Šostakóvič, che era già il compositore più in vista in Russia, in quegli anni era sull'orlo della morte, e molti gerarchi cercarono di mettere in prospettiva lo straordinario successo della sua sinfonia.

Per capire com'era la macchina stalinista dall'interno, rileggiamo cosa scrive Vassili Grossman dello studioso Strum in Vita e destino, che sta vicinissimo all'arresto e viene salvato in extremis da una telefonata di Stalin stesso, e che si pure salvandosi è presto costretto a compromettersi (accusando falsamente un collega). Queste pagine mostrano attraverso questo personaggio del romanzo come si doveva costantemente giocare con il potere, con la linea del partito, con il coraggio e la viltà, ma anche con le istituzioni e le definizioni di ciò che doveva essere l'autentica scienza (o arte) sovietica. Per Šostakóvič, era la stessa situazione : gli si chiedeva di scrivere musica "in linea", chiara e comprensibile per il cittadino sovietico, e soprattutto "ottimista".

E quindi Šostakóvič gioca al gioco delle apparenze, con due livelli di lettura che fanno di questa sinfonia un esempio di tragico ottimismo. Daniele Gatti nell'intervista che rilascia prima di questo concerto afferma chiaramente che il pezzo è tecnicamente meno complesso della quarta (Šostakóvič era stato dissuaso – in stile "amico che ti augura il meglio" – dal presentare la sua quarta sinfonia : sebbene composta nel 1935–36, z fu eseguita in prima assoluta che solo nel 1961).

Così, di fronte alla serenità dell'opera di Stravinskij, la quinta sinfonia è un'opera in tensione, che veste un dramma personale del compositore. “I requisiti” tengono Šostakóvič prigioniero in stretti legami : la posta in gioco per il compositore non era solo una questione di carriera, ma una questione vitale. Questa è la chiave di lettura di quest'opera, paradossalmente una delle sinfonie più suonate oggi, una delle più spettacolari perché è una delle più accessibili, spesso uno strumento dimostrativo per un direttore d'orchestra in cerca di gloria o di effetti.

Gatti mai dimostrativo giocherà qui continuamente su entrambi i livelli, superficie e profondità, apparenza ed essere. Il discorso orchestrale, di una chiarezza rara, culminerà senza dubbio nel largo e nel movimento finale di cui mostrerà il falso ottimismo.

"Alla ricerca della profondità" è quello che potremmo chiamare questo momento, dove, a differenza del pezzo precedente, tutta l'orchestra, super-concentrata, è chiamata in causa e dove la composizione gioca costantemente sui rispettivi ruoli degli archi e della piccola armonia in particolare.

Ecco cosa scrive Solomon Volkov su questa sinfonia, che è esattamente ciò che Gatti cercherà di farci sentire : "Il giubilo è forzato, è il risultato di una costrizione (…). È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone ripetendoti : giubilo ! Giubilo ! il tuo dovere è il giubilo!.

Allora tutta l'arte del direttore d'orchestra sarà di dosare al meglio i volumi e di chiarire le frasi musicali facendo sentire costantemente, dietro la voce principale, una vocina in sottofondo più stridula che dice la verità. A volte sono gli archi e a volte i fiati che hanno il compito di raccontare il vero e proprio sentimento. Così questa sinfonia non è, come altre, una celebrazione o un'illustrazione di una forza collettiva, ma di un destino individuale, un po' come quello di Mahler (si percepisce molto dietro certe frasi, in particolare il Mahler stridulo o grottesco). Lo scrittore Alexei Tolstoj chiamò la Quinta "la Sinfonia del Socialismo", che finisce come espressione della gratitudine delle masse, e , e ufficialmente, Šostakóvič diede una sorta di programma alla sua opera, dietro il quale si deve ovviamente leggere qualcos'altro : "Il nucleo che ispira la mia sinfonia è il divenire, la realizzazione della personalità umana. Al centro del pezzo, lirico dall'inizio alla fine, ho posto un uomo con tutte le sue emozioni e tragedie ; il Finale risolve gli impulsi del primo movimento, e la loro tensione tragica, in ottimismo e gioia di vivere".

Dalla tragedia iniziale dell'uomo alla gioia di vivere, tale è il percorso ufficiale. In contrasto con il precedente Stravinskij, qui si deve costantemente vedere dietro gli occhi, e questo è il pregio di questa interpretazione cupa, a volte stridente, con un tempo piuttosto contenuto, che richiede un impegno e una concentrazione insoliti da parte dell'orchestra.

Atmosfera cupa, persino inquietante e misteriosa nel primo movimento, moderato, la cui prima parte è dominata dagli archi, con alcuni echi piuttosto sinistri al fagotto (Daniele Damiano), si sente il flauto in filigrana, poi il resto dei fiati entra in gioco, in modo piuttosto struggente, il flauto e soprattutto l'oboe (Albrecht Mayer) che si scambia con il fagotto a cui si aggiungono i corni in una sorta di crescendo che sembra trionfale, ma subito dopo si sentono i violini quasi amari, acidi, che riprendono anche il tema iniziale con le risposte dei violoncelli. L'intervento del clarinetto (Andreas Ottensamer) è appena percettibile, un filo sonoro. Tutta questa prima parte è dominata da una sensazione di attesa, mistero e tensione. Il pianoforte fa oscillare questo sentimento, gli ottoni e i fiati arrivano in primo piano (clarinetto, oboe, flauto) con gli archi più striduli sullo sfondo in un insieme artificiale che suona quasi come il Wozzeck di Berg (opera cara a Gatti), Si pensa agli interventi del Tamburomaggiore … Siamo al limite del grottesco, ma senza mai accentuare, come sul filo del rasoio, una sorta di sentimento del irrisorio, che sale contemporaneamente alla violenza del suono (timpani, percussioni che cantano il crescendo in una sorta di climax – a cui non riusciamo ad aderire). Si aderisce più chiaramente alla parte finale, al dialogo di flauto e violini, poi ancora clarinetto e oboe, in un insieme quasi cameristico dove tutti intervengono (Emmanuel Pahud è magnifico in questo momento), in un'atmosfera di una malinconia che stringe lasciando morire il suono.

Emmanuel Pahud (Flauto)

Lo scherzo in seconda posizione (allegretto) ha un colore molto mahleriano, dopo un inizio assai ritmico dei contrabbassi e dei violoncelli, i fiati prendono la voce, più ballabile. Tutto inizia nella relativa noncuranza di un Ländler mahleriano dove la piccola armonia dei Berliner è meravigliosa. Un Ländler con un ritmo molto marcato (dai violini, e si può vedere sullo schermo Pahud muovere la testa al ritmo della danza) … Quasi troppo, come se sotto l'evocazione trafigge ancora il sarcasmo. Anche qui sentiamo Mahler, ma anche qui a volte Berg, l'evocativo e l’irrisorio, anche se ci sono momenti di puro lirismo, come il violino di Kashimoto, ripreso da flauto e arpa come una macchia di nostalgia. C'è il commento toccante e un po' distanziato (al controfagotto) con i meravigliosi pizzicati dei Berliner, che ci porta alla fine, aperta dal sempre fenomenale oboe di Mayer, presto ripreso dagli ottoni e dalle percussioni, con un ruolo volutamente fuori tempo e un po' volutamente russante rispetto all'insieme. È un momento straordinario di lavoro sui volumi, sulle coperture vocali, sulle sequenze, a volte in fluidità, a volte in rottura. E l’orchestra obbedisce ad ogni inflessione.

Albrecht Mayer (Oboe)

Il Largo è in questa sinfonia e in questa interpretazione, l'unico momento in cui l'impressione è unitaria : un momento di raccoglimento, di rientro in se stesso, il momento meditativo e allo stesso tempo la tristezza che abbraccia e addirittura sconvolge, dove Daniele Gatti ottiene dall'orchestra raffinatezze incredibile, infinitesimali, al limite del "quasi nulla". Uno dei vertici dell'espressione lirica, che Šostakóvič considerava il suo movimento più riuscito – senza dubbio anche perché poteva "lasciarsi andare" un po', con la sua raffinata costruzione appoggiata quasi esclusivamente sugli archi, che qui sono veramente al loro massimo.
L'atmosfera qui è ancora straordinariamente concentrata, e il risultato è di un'intensità rara, ci sono momenti "sospesi" come l'intervento del flauto con l'arpa (Marie-Pierre Langlamet) in sottofondo, poi un crescendo incredibilmente controllato sugli archi e al culmine, un leggero silenzio seguito da una ripresa sugli archi gravi con i violini appena udibili, appena toccati, in sottofondo, e ancora l'intervento dei fiati, oboe, clarinetto : l'intensità di questi momenti è miracolosa, travolgente, tanto da esprimere la difficoltà dello stare al mondo, la solitudine, la vita che si tira sull'orlo del precipizio, ma qui non siamo nel dramma espressionista, ma sempre nell'elegia, in tutta la sua infinita tristezza.
Per questo non è mai sostenuto o esagerato, non si cerca mai l'effetto esterno. Tutto è una sorta di sguardo dentro, il rientro in sé stessi. Come tale, il dialogo finale tra arpe e violini stringe il cuore e l’anima. Al limite del sublime.
Quindi, ovviamente, il contrasto è duro e volontario tra la verità del cuore che è stata appena espressa e la verità dell'apparenza che deve essere espressa in questa marcia finale verso l'ottimismo socialista … "a marcia forzata" …
Lo shock è duro, e allo stesso tempo fa sentire perfettamente il contrasto volontario tra l'io profondo e l'io sociale se non socialista. Il sé per sé e il sé per gli altri.
Si ritorna così al gioco sul filo del rasoio di cui parlavamo tra ciò che è servito, una marcia trionfale verso la chiarezza e le indicazioni sotterranee dell'illusione.
La prima parte è dominata da una dinamica degli ottoni (bellissimi interventi di tromba di Guillaume Jehl) accompagnata dalla marcia dei violini. È interessante seguire i violini perché sono quelli che danno il "colore" e indicano anche il sotto-testo. Interessanti anche gli interventi ironici della tuba. I violini indicano una corsa faustiana verso l'abisso, e si sentono, d'altra parte, a volte melodie più facili, più "scorrevoli", vicine alla musica da film, anche un po' volgare, attraversate da dissonanze nei fiati.

Andreas Ottensamer (Clarinetto)

Al centro del movimento, un rallentamento molto riuscito dove i violini addolciti dialogano con i corni, ripresi dai dei fiati, clarinetto, oboe, flauto (ultimo grande intervento) e il finale inizia con una certa insistenza degli archi gravi che fanno eco ai corni, ripresi dai violini che fanno eco alle arpe, ancora un momento particolarmente riuscito, prima del crescendo finale scandito dai timpani, un finale – secondo Gatti nell'intervista – che fa pensare a certi finali di Mahler un po' "esagerati", come una gioia fintroppo eccessiva per essere sincera, e sente nei violini, con la loro scansione forte, come un amarezza, l'eco di un'altra verità, più incisiva e meno ottimista di quella esposta, con percussioni che ricordano lo Strauss di Zarathustra

Una delle esecuzioni più forti che abbia mai sentito di questa sinfonia, facendo vedere chiaramente l'armonia dell'orchestra e del direttore, che ottiene tutte le sfumature e le raffinatezze possibili, e la straordinaria concentrazione di questo momento musicale complessivo. I Berliner hanno saputo rispondere sia al sereno tecnicismo di Stravinskij che alla doppia postulazione di uno Šostakóvič che rimane se stesso pur "fingendo", in una costruzione particolarmente magistrale. Gatti dimostra ancora una volta che sta attraversando un momento di grazia. Magnifico concerto, bellissimo incontro.

Concerto accessibile su Digital Concert Hall (accesso a pagamento, varie tariffe da 9,90 € (7 giorni) a 149 € (un anno).

https://www.digitalconcerthall.com/en/concert/53138

Crediti foto : © Digital Concert Hall (immagini riprese dallo streaming)
© Pablo Faccinetto (Ritratto Gatti – Yestata)

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