Giuseppe Verdi (1813–1901)
Aida (1871)
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni, da una versione in francese di Camille du Locle, su soggetto di Auguste Mariette.
Prima assoluta il 24 docembre 1871 all'TEatro Chediviale dell'Opera del Cairo

Direzione musicale : Michele Mariotti
Regia : Lotte de Beer
Scene : Christof Hetzer
Artista visiva : Virgina Chihota
Costumi : Joris van Beek
Luci : Alex Brok
Drammaturgia : Peter Te Nuyl
Concezione e direzione delle marionette : Marvyn Villar
Maestro del coro : José-Luis Basso

Aida, Sondra Radvanovsky
Radames, Jonas Kaufmann
Amneris, Ksenia Dudnikova
Amonasro, Ludovic Tézier
Ramfis, Dmitry Belosselskiy
Il Re d'Egitto, Soloman Howard
Il Messaggero, Alessandro Liberatore
Una Sacerdotessa, Roberta Mantegna

Orchestre et Choeurs de l'Opéra National de Paris

Streaming su Arte Concert fino al 20 agosto 2021

Parigi, Opéra National de Paris-Bastille, spettacolo visto in sala durante la ripresa televisiva il 18 febbraio 2021, 19h30

Prima nuova produzione all'Opera di Parigi dalla primavera del 2020, è dire l'attesa che circondava questa Aida, programmata sotto il mandato di Stéphane Lissner, ma che di fatto diventa la prima produzione dell'era del neodirettore Alexander Neef (anticipata, come sappiamo). Prima produzione firmata a Parigi dalla olandese Lotte de Beer, che sta iniziando a lavorare nei teatri d'opera in Europa (abbiamo in questo sito un servizio sul suo Trittico a Monaco, diretto da Kirill Petrenko, che vedremo presto a Barcellona). 

Ben nell'aria di un tempo che interroga la colonizzazione e le colpe dell’Occidente, questa produzione sembra essere arrivata in una calcolata messa in scena (pure casuale) del calendario, in un momento di dibattiti sulla « diversità » nell'opera di Parigi. Grandissimi del canto (i più grandi?) sono stati riuniti sotto l'esperta direzione di Michele Mariotti, il risultato è uno spettacolo musicalmente straordinario, che suscita osservazioni, fastidi, domande nel modo di tradurre in scena quest'opera così popolare,  anche se qualche volta un po' problematica.

Aida-burattino

Lo streaming è visibile fino al 20 agosto 2021 sulla piattaforma ArteConcert :
https://www.arte.tv/fr/videos/100863–000‑A/giuseppe-verdi-aida/

 

Requisiti

Quest'opera popolare, che fa le belle serate dei 15.000 spettatori di Verona, stranamente non ha interessato i programmatori che si sono succeduti all'Opéra di Parigi dagli anni '70, poiché la produzione di Olivier Py del 2013 è stata la prima in una cinquantina d'anni, mentre Aida è nel repertorio dell'Opera di Parigi dal 1880. Py aveva lavorato sul Risorgimento, facendo dell'Aida un'opera sulla resistenza italiana e la costituzione della nazione, in uno stile fiammeggiante che non convinceva molto, tanto più che l'Aida, del 1871, arriva in un momento in cui l'Italia è indipendente, unificata, e anche se ha ancora dei territori da recuperare, l'Austria, il suo nemico, è geopoliticamente fortemente indebolita da Sadowa (1866). Nel 1871 il Risorgimento est acqua passata : si pensa al futuro, anche se Verdi rimane un grande messaggero politico (Boccanegra, Don Carlos…).
Così, come la nuova produzione affronta altre questioni dell'epoca della creazione e del nostro tempo : il pubblico attuale dell'Opéra di Parigi non ha mai avuto diritto a un'Aida "egiziana" per cinquant'anni, riservata ad altri palcoscenici più popolari o "populisti", come l’arena di Bercy ((Un’arena-palazzo dello Sport, situata dietro la Gare de Lyon )) in particolare.
Perché Lotte de Beer non si concentra tanto sulla trama, la storia di una schiava etiope e di un generale egiziano che tradisce la sua patria per amore sullo sfondo del conflitto tra due nazioni, ma sulle circostanze della creazione dell'opera, commissionata dal Chedivè Ismāʿīl Pascià nel 1869 in occasione dell'inaugurazione del Canale di Suez, ed eseguita (in assenza di Verdi) nel nuovissimo Teatro dell'Opera del Cairo. Tutto questo nel mezzo di un'agitazione "geopolitica" tra le ambizioni britanniche e i costruttori francesi. Gli inglesi non si diedero pace finché la costruzione del canale non fu completata e chiesero più volte al sultano turco, sovrano del territorio, di bloccare i lavori.

Ricordiamo un po‘ di fatti storici : nel 1871, l'Egitto era „indipendente a meta“  da una parte sotto l'autorità del sultano ottomano (allora Abdulaziz), ma governato nei fatti da un "viceré", il Chedivè, al quale il sultano lasciava ogni latitudine e autonomia.
Il Chedivè Ismāʿīl Pascià è il nipote di Mehmet Ali, che è considerato il fondatore dell'Egitto moderno. Ha studiato in Francia, e fa parte di questa élite ottomana che guarda all'Europa, politicamente e culturalmente. Non solo costruì il Teatro dell'Opera del Cairo e commissionò a Verdi un'opera, ma fu anche uno dei maggiori donatori del primo Festival di Bayreuth (come tra l’altro il sultano Abdulaziz).
Questi richiami ci invitano quindi a vedere le tribolazioni geopolitiche che circondano la creazione di Aida sotto una luce leggermente diversa. Per un Chedivè "europeizzato" come Ismāʿīl Pascià, l'idea era di dare al Cairo un teatro d’opera, e di farne il luogo di una opera nuova di uno dei due più venerati compositori dell'epoca, Giuseppe Verdi (l'altro era Wagner…) e quindi allo stesso tempo il luogo di attenzione dell'élite culturale europea.
Aida non è quindi un'opera imposta all’Egitto dall'esterno ma richiesta dall'interno, anche se questo “interno” è fortemente europeizzato e elitario ; oggi si parlerebbe di operazione di comunicazione, di cui tra l’altro Verdi stesso diffidava, visto che non ha presenziato alla Prima.
La colorazione egittologica (Auguste Mariette il famoso egittologo era garante dell’esattezza “filologica” dell’opera) corrisponde al luogo della creazione, ma anche al fascino degli studi egittologici e dell'antichità, essenziale dalla fine del Settecento e dall'epoca napoleonica, sotto la quale Champollion decifrò la Stele di Rosetta, e allo stesso tempo i geroglifici. Questo ha dato origine all'egittologia moderna e all'"egittomania", di cui l'Egitto fa ancora oggi il suo business, e di cui i musei occidentali (Museo Egizio di Torino, Louvre, British Museum) hanno anch'essi fatto il loro, "ospitando" un gran numero di opere.

Amneris (Ksenia Dudnikova), Radames (Jonas Kaufmann), Il Re (Soloman Howard) in un ritratto che sembra una foto della regina Victoria…

L'Aida era una testimonianza di questa “egittomania”, ma il libretto stesso aveva tutte le caratteristiche del melodramma tradizionale : il soprano ama il tenore, anche amato dal malvagio mezzosoprano, e così la coppia muore, in nome della ben nota alleanza di Eros e Tanato, lasciando il mezzosoprano non amato e malvagio, solo con i suoi rimorsi.

Questo amore tra Radames e Aida è doppiamente problematico : lei è una schiava, inoltre è etiope (in realtà probabilmente nubiana, la confusione è frequente fin dal Medioevo) ((la Nubia è l'attuale Sudan, ed è nata ai confini dell'Egitto, a sud di Assuan, e numerosi conflitti hanno punteggiato la storia dell'antico Egitto)), quindi nera : è un amore proibito tra due categorie umane (persone libere e schiavi) che si incrociano senza vedersi e quindi non dovrebbero guardarsi. Il problema della schiavitù non è risolto nell’ottocento al momento di Aida.

Due amanti appartenenti a due nazioni nemiche che muoiono in una tomba… Questo ricorda vagamente Romeo e Giulietta, con cui la storia di Aida ha una parentela lontana assai.
Pertanto, si vede che questa storia, tipica dell'opera dell'epoca e del teatro occidentale, è ambientata su uno sfondo egiziano, per condirla di pittoresco. Aida non presenta di per sé, per l'epoca e anche per lo spettatore moderno, nessun carattere pre- o postcoloniale. Quello che lo spettatore vuole è essere ripagato nella scena del trionfo, la specialità di Verona. E inoltre, molti spettatori-turisti lasciano l'arena per la pizza durante l'intervallo, trascurando la parte musicalmente più riuscita dell'opera. L'Aida sarebbe oggi un’opera "pre-coloniale", per mostrare i misfatti della civiltà occidentale, che così si flagella deliziosamente a teatro  (o, in questi tempi, dietro il suo schermo).
Questo è forse sacrificare a una moda, al politically correct che tanto oggi pervase i discorsi.

Inoltre, in molti allestimenti, la schiava Aida non è nemmeno vestita da schiava nera (blackface) se è cantata da una cantante bianca, ed è solo una felice coincidenza quando il ruolo è trasfigurato da una Leontyne Price. E mentre alcune regie indicano la "negritudine" di Aida, la maggior parte non lo fa, semplicemente perché lo spettatore non la considera di grande importanza in questa storia, o almeno ha totalmente represso le ramificazioni che mettono questi temi sotto i riflettori oggi.
Resta il fatto che, al di là della questione coloniale, la questione della schiavitù è sollevata nell'opera, in modo diretto data la condizione di Aida, figlia di un re che è diventata schiava e quindi annientata socialmente.
La questione della schiavitù è affrontata nell'opera in due momenti, quando Amneris annuncia ad Aida la morte di Radames e dice il falso per conoscere il vero, e quando Amonasro, il padre di Aida, la insulta : “Non sei mia figlia !
Dei Faraoni tu sei la schiava ! ”
quando lei inizialmente rifiuta di obbedirgli. Quindi solo i “cattivi” affrontano questa domanda.Radames da buon moroso vede in Aida solo la donna amata. In teoria, l'amore cancella le barriere sociali e "razziali". Ed è qui che entra in gioco la regia di Lotte de Beer.

Aida e la sua voce (Sondra Radvanovky)


La marionetta come elemento dirompente

Queste lunghe considerazioni preliminari per sottolineare che la scelta di Lotte De Beer è anche una scelta dettata dalle circostanze, dai nuovi modi di guardare alla colonizzazione ("crimine contro l'umanità" aveva detto Macron qualche anno fa), agli studi post-coloniali – di cui si parla molto- e a tutto il rapporto critico che si vorrebbe mantenere con il nostro passato, soprattutto quando non è brillante.

Si tratta quindi di una scelta "di moda", ma in realtà non cosi contemporanea. Il Regietheater tedesco guardava all'Aida già da una quarantina d'anni : nel 1981, a Francoforte, in una produzione che fece molto discutere, Hans Neuenfels, installando il coro nei palchi del teatro come se fosse spettatore dell'opera, aveva rappresentato il pubblico borghese dell'epoca della prima dell’Aida, e la scena del trionfo era un po’ simile allo sguardo di oggi : i prigionieri entravano in teatro come bestie frustate da un domatore. Quarant'anni dopo, Lotte De Beer rimane in questa prospettiva. Non è quindi una visione "rivoluzionaria" o nuova. È nell'aria oggi, ed era nell'aria nel teatro… da quarant'anni.
Questo non significa che la produzione sia mediocre. Ma ci sembra opportuno mettere le cose in prospettiva.
Stando così le cose, se nel 1981 Neuenfels fece un'Aida molto nuova e persino scandalosa per l'epoca, Karajan a Salisburgo due anni prima ne aveva fatta una in cui i ballerini danzavano di profilo come sui bassorilievi egizi, e in un ambiente “piramidale”. E la produzione di Verona soddisfa la sete di Egitto eterno del pubblico. Ancora una volta, Aida offre una vasta gamma tra il Regietheater e l'Opera-Paillettes.
Così Lotte De Beer, seguendo la via aperta da Neuenfels, mette in discussione sia lo sguardo occidentale, l'esotismo-cianfrusaglie, sia il nostro saccheggio delle opere dei paesi conquistati, facendo di Aida un'opera che testimonia questo saccheggio, come se fosse un avatar dell'antico Egitto per la borghesia in cerca di opera-piacere e di Musei egiziani. Mette in discussione le nostre rappresentazioni estetiche e morali su quest'altra conquista che è l'Egitto e più in generale sulle nostre conquiste coloniali. I prigionieri non sono più bestie come da Neuenfels, ma oggetti : lo schiavo non è umano, è un oggetto manipolato, un burattino.
Lo sguardo occidentale non è negazione, non è umiliazione, ma è museale, come lo sguardo per un oggetto sotto vetrina per una curiosità. Cosi Aida-Marionetta troneggia all'inizio dell'opera sotto vetrina. Radames in un certo senso s'innamora di un'opera d'arte  , come Pigmalione e altri. Una specie di agalmatofilo
Ma se Lotte de Beer dichiara che nell'opera, Aida e suo padre diventano ostaggi ("sono tenuti come prigionieri di guerra proprio come le opere d'arte che sono state trasportate nei musei etnologici europei.
Ed è lì che troviamo i nostri protagonisti, in un museo in mezzo a tutto l'altro bottino coloniale") ((Estratto dal programma di sala)), l'approccio artistico rimane un po' fallace… In una situazione storica simile, Carlo V tenne prigioniero Francesco I, re di Francia, come "prigioniero di guerra" dopo la Battaglia di Pavia, ma Francesco I non fu reificato… può quindi anche essere letto come un atto di riconoscimento dell'altro così prezioso da essere "conservato" e quindi dereificazione suprema.
Si può cercare di giustificare con la psiche un Radames innamorato di un burattino da museo. Ciò che Lotte De Beer vuole mostrare è prima di tutto l'inesistenza di Aida e Amonasro. Il vinto non esiste, non è più umano, non solo è altro, ma addirittura cambia la sua natura.

 

Virginia Chihota : Victorious over my brothers that I may see him (2020)

Per questo motivo mette in gioco il punto di vista dell'artista visiva Virginia Chihota, dello Zimbabwe, le cui opere particolarmente interessanti sono proiettate sulle pareti, dietro i personaggi, come a imporre l'esistenza di un'arte proveniente da questa Africa ex-coloniale, addirittura segregazionista ((lo Zimbabwe, ex-Rhodesia del Sud, era una ex-colonia britannica, dove la minoranza bianca dichiarò l'indipendenza nel 1965 e praticò una segregazione razziale simile a quella del Sud Africa. È stato uno dei grandi affari internazionali fino all'indipendenza del paese nel 1980)), ma soprattutto ha disegnato le due marionette di Amonasro e Aida, poi realizzate dal team di Marvyn Millar. Queste marionette sono diventate il prodotto di un artista africano, rappresentazioni e immagini endogene in un certo senso. Anche qui, possiamo vederci un conformismo perbenista anche se ci sembra un'idea davvero buona che oppone due immaginari nati su entrambi i lati della Storia.

Team Aida : Sondra Radvanovky, Il burattino e i burattinai.

Così siamo rimasti sorpresi all'inizio di vedere il burattino, mosso da tre persone, così invasivo. La cantante deve cantare in modo “costretto”, senza esprimere nulla attraverso il suo corpo (perché è come il quarto manipolatore della marionetta) ma solo attraverso la sua voce, una performance notevole, con circostanze aggravanti, perché senza un pubblico che possa sostenere o applaudire. Straordinaria solitudine dell'artista – lo ha confidato Sondra Radvanovsky con un po' di amarezza – condannata a cantare nel deserto…

Per il tenore, la sfida è niente meno che rivolgersi con passione, con amore a un pupazzo articolato. Così all'inizio del primo atto dimostra una relativa rigidità, come un disagio, una mancanza di naturalezza (si può capire) al di là dell'arte canora stupefacente di Jonas Kaufmann, che peraltro con la sua tecnica mostra un canto completamente controllato con una voce piena di sfumature, che ben si adatta alla situazione in cui viene esposto un canto interiore, più che un canto che si rivolgerebbe a un partner. Dimostra un'arte eccezionale in materia.

E per lo spettatore richiede anche di abituarsi. La situazione è paradossale, e intesa come tale. La schiava Aida non esiste in termini umani, e quando si trova in scena, c'è la marionetta, due o tre manipolatori, uno dei quali è costantemente accovacciato per muovere i piedi, e la cantante appena dietro di tutti. Insomma, se Aida "non è", noi vediamo solo lei, con la superficie che occupa, lei forse "non è" ma "esiste"di sicuro ! E questo è ovviamente intenzionale : quelli che vuoi che siano invisibili, quelli che non consideri o vuoi eliminare sono lì davanti ai tuoi occhi, a dispetto tuo e occupano lo spazio. Questo mondo, il nostro mondo vorrebbe negare l'Aida, ma più si vuole negarla, più occupa lo spazio, più occupa lo sguardo, come il nastro adesivo che rimane attaccato al dito del capitano Haddock (di Tintin) senza che lui possa liberarsene.

Una volta ammessa questa "convenzione", tutto ovviamente diventa chiaro. Abbiamo un mondo di rappresentazioni che è quello della borghesia che naviga con una coppa di champagne in mano tra le tracce delle conquiste coloniali, in una sala da museo, e dall'altra il mondo della verità, paradossalmente personificato dalla marionetta che rappresenta l'inesistenza ai nostri occhi e che è lì, costantemente lì, ad occupare il nostro sguardo, disturbando tutti, sia interpreti che spettatori, con la sua stessa presenza. Un'idea molto forte per rappresentare ciò che non vogliamo vedere.

Allo stesso tempo, capiamo anche questo Radames, all'inizio un po' rigido (una rigidità molto militare). Attraverso il suo amore appassionato per una "cosa", illustra la situazione psicologica dell'amante della schiava, della donna nera, dell'altra : c'è un disagio strutturale, persino un pericolo nella società in cui lui evolve, nell'amare ciò che è negato. È una via di mezzo, tra l'eroe barocco celebrato nel primo e nel secondo atto, e l'essere disperato dell'ultimo atto, in stracci, che finisce con la marionetta in braccio, in posizione di Pietà. Come dice una citazione (di Sami Tchak) del programma di sala, "Il conquistatore si indebolisce quando si apre all'altro.”
Infatti, Radames ha tradito la sua casta prima di tradire la sua patria, e così facendo è uno sconfitto fin dall’inizio.
Si capisce allora perché il terzo atto, che presenta la scena tra la marionetta-Aida e il burattino-Amonasro, funziona meglio, perché le due marionette sono insieme, senza "umani" di disturbo (e anche per inciso, perché lo straordinario Ludovic Tézier è meno disciplinato della sua collega nell'arte del "canto nel deserto" e "recita" un po' di più). Resta il fatto che quando due burattini si incontrano, si raccontano storie di burattini, sono in un certo senso sul loro terreno. Si poteva però immaginare che per questa scena, e solo per questa scena, le due marionette sparissero a favore dei "veri" personaggi di carne perché esistono uno per l'altro… ma non per noi, ovviamente.
Tutto questo non è sciocco, né illogico nel contesto, ma è forse un po' troppo dimostrativo e pesante. Resta il fatto che la regia acquista significato e interesse anche attraverso il gioco dei contrasti. Ci permette di isolare il personaggio di Amneris e forse di dargli un peso simbolico maggiore, come la regina del mondo sociale dell'Ottocento, che viene qui denunciata come rappresentante di questa normalità occidentale e coloniale.

Atto secondo, sc.I : Amneris (Ksenia Dudnikova)

Dalla scena I dell'atto II, la cui didascalia non molto politicamente corretta è :

“Una sala nell'appartamento di Amneris.
Amneris circondata dalle schiave che l'abbigliano per la festa trionfale. Dai tripodi si eleva il profumo degli aromi. Giovani schiavi mori danzando agitano i ventagli di piume"

Lotte de Beer ne fa una scena alla Edgar Degas, con un fondale chiaramente ispirato al sipario del Palais Garnier (tranne che per i colori), installando tutta questa bella gente nel "Foyer de la danse”, un sogno della ricca borghesia il cui opera-tempio, ancora incompiuto nel 1871, verrà inaugurato nel 1875.

Ovviamente, tutte le scene con Amneris sembrano funzionare meglio, con più fluidità : siamo “tra di noi”, tra i bianchi e senza gli elementi di disturbo che sono le marionette. Così la grande scena tra Radames e Amneris del quarto atto, con uno sfondo di tappezzeria verde, sembra essere impostata come una scena domestica verista (= che rappresenta il reale), un tipo di dramma che si potrebbe vedere in un teatro dei boulevard parigino, o in un'opera di Mascagni o Leoncavallo. L'effetto indotto dalla presenza delle marionette è quello di restituire alle scene da cui sono assenti un colore tipico del teatro borghese della fine Ottocento.

 

La scena del trionfo

Con un tale approccio come può essere resa la scena del trionfo ?
Qualunque sia la scelta del regista, le aspettative del pubblico devono essere soddisfatte, così come il libretto. Vale a dire, deve essere spettacolare, o almeno "fare spettacolo".
Lotte de Beer non concentra la sua messa in scena sul post-colonialismo, ma piuttosto sull'immaginario sviluppato dal mondo occidentale sulla nozione di conquista, sulle mitologie delle guerre e dei poteri, sul modo in cui il potere diventa mito. E questa scena è prima di tutto il trionfo di Radames, e così Lotte de Beer va a cercare immagini di trionfi, di vincitori, di apoteosi. Invece di mettere in scena il trionfo egiziano sul palco, che nella sua regia avrebbe poco senso ; lo trasforma in una specie di spettacolo da salotto, dove la corte riunita viene intrattenuta guardando dei tableaux vivants. Invece dello spettacolo del trionfo dell'Egitto, offre lo spettacolo del trionfo dell'Occidente allo specchio, dal Sei- al Novecento, dal re Sole a Iwo Jima.

Lavora sulle nostre rappresentazioni, sia degli schiavi che delle nostre glorie e dei loro modelli ; Omero, Alessandro e Dario, Luigi XIV, De Ruyter (il più grande ammiraglio olandese) Bonaparte. Così, a tempo di record e in modo incredibilmente virtuoso (è un vero e proprio "momento scenico"), sei tableaux vivants raffiguranti battaglie, trionfi, apoteosi, conquiste e conquistatori si svolgeranno davanti a noi. Capiamo allora che la questione non è solo il post-colonialismo, ma la nostra immaginazione e le nostre rappresentazioni di una civiltà conquistatrice. La nostra civiltà vista come LA civiltà.

L’apothéose d’Homère, Ingres (1827) (Musée du Louvre)

I quadri rappresentati sono :

  • L’apothéose d’Homère, di Ingres (1827) (Musée du Louvre)(v.sopra)
  • Con il suo corollario, l'Apoteosi di Radames : 

    Ksenia Dudnikova (Amneris) Jonas Kaufmann (Radames)
  • La battaglia di Alessandro e Dario, di Pietro da Cortona (1644–1650):

    Musei Capitolini (Roma)

    E la sua variazione scenica :

    Musei Capitolini (Roma)
  • Assemblea degli Dei (la famiglia di Luigi XIV da dei dell’Antichità), di Jean Nocret (1670):

    Musée National du Château de Versailles
  • Ritratto di Michiel de Ruyter di Ferdinand Bol (1667)
  • Bonaparte che attraversa il Gran San Bernardo di David (1801)
  • La Libertà che guida il popolo, di Delacroix (1830)
  • La conquista dell’isola di Iwo Jima, Marines che piantano la bandiera americana (1945)

Quando guardiamo questa lista di quadri, che sfilano giocosamente al centro della scena, su un piccolo palcoscenico, quadri viventi che si fissano in dieci secondi e che cedono immediatamente il posto ad un altro, vediamo come Lotte de Beer analizza la nostra idea del trionfo, con tante mitologie. Dobbiamo inscrivere i nostri miti del momento nei miti inattuali e fondativi dell'Occidente, ma allo stesso tempo la regista costruisce legami indiretti tra di loro : come non collegare la "Libertà che guida il popolo" di Delacroix e la foto di Iwo Jima, un'immagine moderna di conquista che indica con la bandiera l'arrivo della "libertà" (di stile yankee).

 

 La libertà che guida il popolo , Delacroix (1830), Musée du Louvre

I marines piantano la bandiera americana a Iwo Jima (1945), fotografia

Mostrare l'apoteosi di Radames raffigurando quella di Omero, o l'assemblea degli Dei dell'Olimpo raffigurando la famiglia reale di Luigi XIV vuol dire che raffiguriamo i nostri Dei ed eroi a immagine dei nostri miti antichi, proprio come i nostri guerrieri dove Bonaparte riecheggia Alessandro. Ricordiamo l'inizio de La Certosa di Parma, di Stendhal : "Il 15 maggio 1796 il general Bonaparte entrò a Milano alla testa del giovine esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore."

Bonaparte che attraversa il Gran San Bernardo di David (1801)

E nel mezzo, di fronte al mondo francese sovra rappresentato in questa sfilata della nostro immaginario storico, il ritratto di Michiel de Ruyter (di Ferdinand Bol) è un occhiolino divertito dell'olandese Lotte de Beer : questo ritratto di un ammiraglio, uno dei più grandi guerrieri della storia dei Paesi Bassi (i Paesi Bassi sono una nazione commerciale, ma anche uno stato guerriero e colonizzatore) un ritratto relativamente ascetico (l'ascetismo protestante) in contrasto con l'ostentazione francese, ma un Ruyter appoggiato a un globo e con le navi sullo sfondo… tutto un programma.
Anche i Paesi Bassi non scherzano…

Ritratto di Michiel De Ruyter, di Ferdinand Bol (1667)

Così il trionfo di Radames è visto come l'esposizione dell'immaginario dei nostri trionfi, riferimenti che vanno al di là delle epoche, dei generi e dei personaggi : se evochiamo Omero, è ovviamente perché celebriamo l'epica della guerra, l'Iliade, la conquista mitica, madre di tutte le guerre.
Questa circolazione vertiginosa, regolata con rara precisione, è anche per lo spettatore una verifica della sua conoscenza della mitologia personale, per misurarsi con il suo immaginario : sono un "buon" occidentale ? La risposta sarà data dopo aver riconosciuto ogni quadro…

Tableaux vivants

È ovviamente un gioco, che vale un altro e vale le centinaia di comparse di Verona. In ogni caso, è un punto culminante di quest'opera perché nel terzo atto passiamo ad un'intimità diversa, dove anche il gioco delle marionette e della realtà varieggia, come abbiamo visto sopra.

Abbiamo evocato gli atti III e IV, con l'emozione che nasce nell'atto III (anche la musica c'entra) e questa evocazione della patria (l'Etiopia), descritta come una specie di paradiso terrestre, colline verdi, rive profumate, valli fresche, foreste profumate : è quasi il locus amoenus della poesia latina elegiaca, l'immaginazione di una patria ideale com'è costruita nelle nostre mitologie moderne. È l'atto, è stato detto, in cui la marionetta disturba meno, forse anche perché prevale la potenza della musica (e l'arte suprema dei tre protagonisti, Kaufmann, Tézier e Radvanovsky).

L'atto IV ha due parti, la prima parte, come abbiamo detto, è un momento tradizionale in cui la non-amata e pentita Amneris cerca di salvare Radames in questa scena trattata come un confronto verista.

Scena finale, la cantante (Sondra Radvanovky) s'allontana

Invece la scena finale, fatta spesso in modo pesante, con un set sovraffollato di tomba egizia (vedi le produzioni di Franco Zeffirelli, un maestro in questo campo), è ben diversa. Lotte de Beer ha costruito senza dubbio uno dei momenti più forti di tutta la serata.
Le scene (di Christof Hetzer) raffigurano come il fondo di un fosso, dove i cadaveri delle marionette marciscono come corpi in decomposizione. La valle della morte… corpi che potrebbero essere quelli di precedenti detenuti, ma anche i resti di sogni perduti e non realizzati. Il cimitero delle illusioni.
Come nella frase di Sami Tchak citata sopra, il conquistatore è sconfitto, si estinguerà e si unirà ai corpi in decomposizione. Immagine molto forte, con luci veramente eccezionali da parte di Alex Brok.
C'è qualcosa di evidentemente spettrale, dove l'arrivo di Aida sarebbe quasi un'isola di vita, poiché abbiamo l'impressione che nella morte, Aida ridiventi viva e non più una marionetta, recita un po' di più, presente “in carne e ossa” sulla scena e non solo con il suo canto eccezionale.
Ma i burattinai arrivano subito dopo, cercando nei corpi la marionetta che finiscono per trovare. La mettono poi in braccio a Radames dando questa immagine di Pietà, dove Radames muore da solo con la sua marionetta in braccio, mentre la cantante si allontana in fondo, come se tutto fosse un sogno.
Si pensa un po' al terribile e magnifico finale del Tristan und Isolde di Jean-Pierre Ponnelle (Bayreuth 1981), dove Tristano giace, solo, dopo aver sognato la Liebestod. C'è qualcosa in questo finale lacunoso, disperato, come una disintegrazione ultima e terribile, che ci fa considerare la vanità delle nostre conquiste, delle nostre immaginazioni, del mondo nostro, davanti alla solitudine, davanti alle due solitudini, quella di Radames solo con la sua marionetta, e Amneris in un angolo, con luce pallida, in questo modo molto semplice di sottolineare la lacerazione mettendola sul lato, appena visibile : insieme il condannato a morte e la condannata a vivere. Magnifico.

Questo è uno spettacolo che indubbiamente farà discutere, che non è innovativo nel suo scopo, né rivoluzionario nella sua realizzazione, ma molto chiaro, molto didattico anche, a volte un po' pesante o addirittura stordente nel suo modo di abbracciare le tendenze dell’epoca. D'altra parte, ci sono idee, momenti commoventi, una bella "visione di ciò che non è detto", che gioca con le reazioni dello spettatore che naviga tra il fastidio di questo "macchinario burattino", e il sollievo "vigliacco" quando il macchinario scompare, dove la scena è più fluida, come se i nostri geni, il nostro non detto, tutti i nostri modi di nascondere i nostri problemi sotto il tappeto fossero così raffigurati. "Meglio troppe idee che nessuna idea", diceva Boulez. La nostra visione di questa produzione seguirà questo consiglio.


Il vero trionfo di questa Aida è la musica…

Musicalmente, trionfo chiaro, totale, assoluto, abbagliante. La compagnia nel suo insieme è irreprensibile, soprattutto i protagonisti, nonostante la difficoltà per la coppia centrale di cantare nel vuoto o gli occhi negli occhi di un pupazzo grigiastro.
Come sempre nei grandi cast, non c'è debolezza nemmeno nei "piccoli" ruoli. Così del valoroso messaggero di Alessandro Liberatore e soprattutto della sacerdotessa cantata da Roberta Mantegna, che ora canta prime parti in Italia e che mostra qui, come ci si poteva aspettare, una bella presenza vocale, con linea di canto ben sostenuta e una vera delicatezza che si nota subito.
Anche il Re Soloman Howard è interessante, voce forte, timbro caldo, volume controllato e bella proiezione, in un ruolo un po' sacrificato : fa parte del quadro generale della corte, più “arredo” che mai protagonista, ma sempre presente.

Jonas Kaufmann (Radames) e Dmitry Belosselskiy (Ramfis)

Invece il Ramfis di Dmitry Belosselskiy, è parte importante della trama. La sua voce di basso, che riempie i grandi teatri e vari Requiem di Verdi, è ben nota. Il timbro non è necessariamente seducente, ma la voce è potente, la dizione impeccabile, il volume adattato alla sala vuota della Bastille che ovviamente richiede una revisione degli equilibri palcoscenico-orchestra e voce-sala. E questa voce si adatta al personaggio che fa più politica che religione e che in realtà è il vero potere.

Ksenia Dudnikova (Amneris)

Sul quartetto di protagonisti, cosa possiamo exprimere se non ammirazione e soddisfazione ? Ksenia Dudnikova aveva il pesante compito di sostituire Elina Garança originariamente prevista, e difende Amneris con una voce ampia, acuti pieni (una o due volte al limite… Ma non essere pignoli o meschini), una linea vocale magnifica con fraseggio e dizione impeccabili : un’Amneris che, per la sua posizione nella regia, diventa centrale, e che svolge il compito con vera professionalità e impegno. Attira sempre lo sguardo perché è un personaggio "reale", identificabile, che si impone con forza. L'abbiamo vista in altri ruoli, in particolare Carmen (a Verona), e in una bellissima Sonejtka in Lady Macbeth di Mzensk a Salisburgo (diretta da Mariss Jansons), ma è forse nel ruolo di Amneris che canta molto in Russia e altrove, dove colpisce di più.

La parte di Amonasro è ingrata perché è breve e richiede in poco tempo di imporsi (non ha neanche un’aria). Anche un Amonasro solo onesto è problematico per l'equilibrio delle due scene in cui appare. Richiede una voce subito imponente, che deve in una decina di minuti colpire lo spettatore e diventare parte della sua memoria.

Ludovic Tézier (dietro la marionetta di Amonasro)

Ovviamente, Tézier è uno di quelli, perché ha tutto : innanzitutto ha questo timbro brillante, mai velato, chiaro con la potenza (che cantante wagneriano potrebbe essere!). Ma soprattutto ha un bel fraseggio italiano, l’emissione, la chiarezza del discorso, l'espressività, la presenza fisica e vocale : gioca a "evitare" la regia : è, come abbiamo già detto, molto più di una voce dietro una marionetta, e la potenza della scena con Aida viene anche da questa presenza scenica che si impone nonostante la regia. Anche se devo ripetermi, quando lo sento, un solo nome mi viene in mente, quello di Piero Cappuccilli : stesso stile ed eleganza, stessa presenza vocale in scena, stessa potenza.

Jonas Kaufmann (Radames) nella scena finale

Jonas Kaufmann è Radames e lo abbiamo sentito lo scorso luglio a Napoli all'aperto con lo stesso Michele Mariotti sul podio, ma non davanti a una sala vuota, bensì con due o tremila persone affascinate. Era un valoroso Radames, trascinato dalla folla, ardente e delicato allo stesso tempo. Kaufmann è molto intelligente e sa come adattare il suo canto alle circostanze, ma anche a volte alle esigenze della sua stessa voce. Kaufmann non sarà mai un Radames solare alla Carreras o Domingo.
In una produzione che vuole un Radames un po' destabilizzato, più interiore, l'assenza di pubblico può essere un’aiuto per costruire un personaggio isolato, costantemente di fronte alle sue chimere. L'atteggiamento di Kaufmann, un po' rigido nella sua uniforme militare, un po' grigio, disturbato dalla situazione, è accompagnato ovviamente da un canto più interiore, in costante dialogo con sé stesso. Il cantante ha una qualità quasi unica, una tecnica che gli permette delle note filate, mezzevoci, un controllo molto marcato del volume. La voce esce quando serve, con potenza e brillantezza, ma è più nell'interiorizzazione che eccelle. Il suo Celeste Aida è in questo senso un gioiello, un lavoro di cesellatura della parola, di padronanza del suono, che ovviamente fa passare meravigliosamente gli acuti, piegati a questa volontà. Radames è una parte che si adatta perfettamente alla sua voce, navigando tra lirismo ed eroismo. Ed è anche un cantante che si piega sistematicamente e senza fare storie alle esigenze della regia, e che sa tradurre perfettamente il carattere desiderato grazie a inflessioni uniche, un senso della parola del tutto eccezionale. In questa produzione, che richiede al tenore di navigare tra diverse insidie, di abitare un canto che si scontra con un partner-fantoccio, senza affrontare la cantante che canta Aida e quindi senza creare un'emulazione nei duetti, Jonas Kaufmann non solo se la cava con tutti gli onori, ma forse stabilisce anche un nuovo modo di vedere Radames. Stupendo.

Sondra Radvanovsky (la voce di Aida)

Sondra Radvanovsky è una delle due o tre cantanti verdiane indiscusse nel panorama lirico odierno, ha la potenza, la tecnica, gli acuti. Sa anche dare peso ad ogni parola (si capisce tutto nel suo canto). È perfettamente a suo agio nella parte di Aida.
Ha detto chiaramente che la regia l'ha messa in imbarazzo in una posizione che la costringe a cantare costantemente dietro la marionetta, dietro il partner che dovrebbe amare e guardare quindi ad essere vocalmente presente, ma fisicamente anonima, immersa nel gruppo dei manipolatori. Loro fanno camminare il pupazzo e lei lo fa cantare. Certi movimenti meno “costretti” danno la misura della difficoltà di cantare in modo cosi represso. È il ruolo su cui la regia pesa di più, anche più che su Radames, che può cantare un personaggio innamorato e avere movimenti verso l'amata, anche se è un pezzo di legno disarticolato. Lei è molto più "prigioniera" e deve esprimere tutto senza gesto, senza movimento, solo con la voce.
La performance vocale è quanto più eccezionale. Perché non si tratta di cantare come in una versione da concerto, si tratta di cantare una presenza-assenza facendo della voce l'unico strumento della performance, tanto sono limitati i movimenti. Fraseggio e espressione eccezionali, presenza vocale notevole, acuti stratosferici, tecnica da antologia. È una verdiana perché combina una potenza drammatica incredibile con una tecnica belcantista di ferro, con mezzevoci controllate, filati da sogno, pianissimi eterei, soprattutto mantenendo costantemente presenza vocale e rilievo. Il suo duetto finale è una meraviglia di poesia, di canto edenico, in un respiro che rende quasi l’idea della voce di un'ombra. Si rimane stupiti dalla performance in condizioni così ingrate per la cantante, che dimostra ancora una volta “qualis artifex!”

Per sostenere e accompagnare questa squadra eccezionale, il coro dell'Opéra, ancora diretto da José Luis Basso (che parte per Napoli dopo il Faust a marzo) canta mascherato con l'ovvia difficoltà che ne consegue, ma l'acustica di una Bastile vuota è piuttosto un vantaggio, e in un'Aida meno fragorosa di altre, mostra una bella presenza e un vero respiro.  Tanto di cappello.

E poi c'è l'orchestra, diretta da un Michele Mariotti (che avevamo già sentito a Napoli, pieno di energia e galvanizzato dal luogo) che fa in modo di trovare il giusto equilibrio, perché l'orchestra suona ovviamente diversa in una sala senza pubblico, più riverberante, e con un suono leggermente meno distante che nella sala gremita. Per permettere la distanza necessaria (un musicista/un leggio) in buca, gli archi sono stati leggermente ridotti, ma per il resto l'organico dell'orchestra è quello di un'Aida "ordinaria". Il risultato è anche un suono diverso, meno compatto, più analitico, soprattutto per gli interventi degli ottoni e dei legni, un po' più esposti e quindi più in rilievo nelle parti più "epiche" o drammatiche, che si percepiscono meno ovviamente, nelle parti più liriche, ma senza dare mai l’impressione di chiasso.

Mariotti da grande direttore lirico è molto attento a non coprire le voci, che è il pericolo con questa acustica un po' insolita, e sa perfettamente come mantenere una varietà di colori nella sua Aida. Non cancella ciò che è essenziale in Verdi, la pulsazione drammatica, il “teatro della buca”, la perfetta combinazione buca-palcoscenico, ma non abdica alla precisione dei suoni, né alle tante raffinatezze della partitura che esalta, anche con qualche inaspettata civetteria. L'orchestra, visibilmente felice (non è sempre il caso a Parigi), lo applaude con calore riconoscendo in lui il grande direttore verdiano che è.

Tutto sommato, l'eccezionale qualità musicale è destinata a conquistare il pubblico (quando verrà) in una produzione il cui lavoro scenico è lontano dall'essere indegno, anche se meno inaspettato di quanto si potesse pensare. Lotte de Beer ha fatto un certo lavoro di teatro, che disturba più per i suoi aspetti "tecnici" che "filosofici". Voleva che il pubblico e i cantanti fossero "disturbati" per mostrare con questo disturbo "dall'interno" certi altri “disturbi” nati dalla nostra storia, dal nostro immaginario, dai nostri sensi di colpa. È rischioso, ma funziona in una produzione forse troppo dimostrativa e senza scintille. Ma sembra che per la filosofia di questo allestimento, il Palais Garnier sarebbe stato più adatto alla rappresentazione (anche se ha solo 2000 posti) perché questo meraviglioso teatro, quasi contemporaneo ad Aida, è l'illustrazione stessa di ciò che questa produzione sottolinea della società dell'epoca.

Lo streaming è visibile fino al 20 agosto 2021 sulla piattaforma ArteConcert : https://www.arte.tv/fr/videos/100863–000‑A/giuseppe-verdi-aida/

 

 

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