Javier Camarena, ténor
Les Musiciens du prince – Monaco,
Direttore : Gianluca Capuano

Manuel Garcia (1775–1832): Don Quisciotte (1826, ouverture)
Vincenzo Bellini (1801–1835): I Capuletti e i Montecchi (1830)
È serbato a questo acciaro… L’amo tanto, e m’è si cara…
Niccolò Antonio Zingarelli (1752–1837): Giulietta e Romeo (1796)
Più dubitar mi fan… Là dai regni dell’ombra…
Gioachino Rossini (1792–1868): L’italiana in Algeri (1813), ouverture
Gioachino Rossini (1792–1868): Ricciardo e Zoraide (1818)
S’ella m’è ognor fedele…qual sarà mai la gioia…
Gioachino Rossini (1792–1868): La Cenerentola (1817)
Si, ritrovarla io giuro
Gaetano Donizetti (1797–1848): Don Pasquale (1843), ouverture
Manuel Garcia (1775–1832): La mort du Tasse (1821)
Mais que vois-je, une lyre!…Vous dont l’image toujours chère
Edouard Lalo (1823–1892): Le Roi d’Ys (1888)
Vainement, ma bien aimée
Gaetano Donizetti (1797–1848): La fille du régiment (1840)
Ah ! Mes amis, quel jour de fête…

Bis :

Gioachino Rossini (1792–1868): La Danza
Cesar Portillo de la Luz (1922–2013): Contigo en la distancia
Gioachino Rossini (1792–1868): La Cenerentola (1817)
Acte I, duetto di Ramiro e Angelina (con Cecilia Bartoli, Angelina)
Maria Grever (1885–1951): Júrame

 

Principato di Monaco, Opéra di Monte-Carlo, Giovedi 7 gennaio 2021, Ore 20

E' il 2021 d.C. Tutti i teatri sono chiusi dal virus… Tutti ? No ! Un piccolo principato popolato da appassionati di musica irriducibili resiste ancora all'invasore. Il Teatro dell'Opera di Monte-Carlo è aperto e, nel rispetto di un rigoroso protocollo sanitario, propone un recital del tenore Javier Camarena accompagnato dall'Orchestra Les Musiciens du Prince-Monaco, diretta da Gianluca Capuano, prima di un’attesissima produzione di Thais il 22 gennaio 2021.
In un oceano di chiusure in tutta Europa (Spagna e Russia escluse), quest'isola di musica e respiro musicale assume l'aspetto di una sana liberazione, tanto più che la serata è stata eccezionale.

Diversi sono stati i punti interessanti di questo concerto, che non si è limitato a un’esibizione di acrobazie vocali per "vociomani", ma che ha alternato momenti orchestrali e vocali, e che in 75 minuti ha profilato quella che potrebbe essere la musica lirica conosciuta e sconosciuta dei primi 40 anni dell'Ottocento, dominata come sappiamo da Gioachino Rossini. Ma sappiamo anche che il repertorio offerto allora al pubblico era molto più ampio di quello che è arrivato  a noi fino ad oggi, e non si tratta solo del poco conosciuto Meyerbeer italiano, o del giovane Donizetti così influenzato da Rossini ; Vi furono anche compositori prolifici che lasciarono il loro nome a causa della loro voce o della loro famiglia, come Manuel Garcia, padre di Maria Malibran e Pauline Viardot, e glorioso cantante sia tenore (creò Almaviva del Barbiere di Siviglia nel 1816) che baritono, dal momento che cantò anche il ruolo di Don Giovanni, o anche il Conte delle Nozze di Figaro. Questa figura caleidoscopica, che ha creato Don Giovanni anche negli USA su richiesta di Lorenzo Da Ponte, è anche nota per essere stata un compositore piuttosto prolifico, poiché gli dobbiamo più di trenta titoli, di cui stasera ascolteremo un'ouverture (quella di Don Quisciotte, nel 1826) e un'aria tratta da La mort du Tasse (1821).
Un altro compositore sconosciuto è Niccolò Antonio Zingarelli (1752–1837), la cui aria tratta dalla sua opera Giulietta e Romeo, eseguita per la prima volta alla Scala nel 1796, sarà ascoltata questa sera. Gli dobbiamo più di venti opere. La sua produzione lirica si svolge principalmente tra il 1785 e il 1811, la maggior parte della sua produzione rimane però religiosa (più di 500 opere).
Infine, un'ultima osservazione su questo programma, che va da Rossini a Donizetti e Bellini, alternando arie molto conosciute e altre meno, è quella di un'aria del periodo successivo, l'aubade di Mylio Vainement, ma bien aimée, una delle arie più note di Le Roi d'Ys (1888), grande successo di Edouard Lalo tante volte eseguito fino alla seconda guerra mondiale, e oggi molto raramente proposto.
Come si vede, un programma molto aperto, tanto che si esce dal teatro più colto di quanto non si sia entrato.
Musicalmente è l'eccellenza a tutti i livelli, resa ancora più sensibile da questo teatro piccolo, che dà una reale vicinanza ai protagonisti e quasi un carattere di gradita intimità, come se avessimo perso l'abitudine di vedere gli artisti in carne e ossa.

Gianluca Capuano e Les Musiciens du Prince-Monaco di cui è direttore principale

L'eccellenza è prima di tutto l'orchestra – in genere se ne parla poco in questo tipo di programma -, Les Musiciens du Prince-Monaco, di cui ho spesso segnalato le qualità, sia nelle esecuzioni a Lucerna che a Salisburgo. È un'orchestra di strumenti antichi che è un po' insolita, perché è un'orchestra con un repertorio molto aperto (lo vedremo con i bis), e che non esita ad andare verso la musica più recente come Gershwin, con una spinta e un dinamismo notevoli, e col colore particolare dato dalla natura degli strumenti, (gli archi in budello, la natura dei fiati). Ma ciò che la caratterizza è anche un suono pieno, carnoso, la capacità dei suoi membri di improvvisare, di colorare, di divertirsi, di variare, senza mai fallire. Per il repertorio settecentesco, ma anche per il belcanto, è un piacere immenso : quasi ""modernismo" per il barocco, e quasi "antico" per il belcanto (lo vedremo per l'Ouverture di Don Pasquale che suonava così particolare).

Anche il direttore Gianluca Capuano ha una doppia qualità : per formazione è un analista molto rigoroso delle partiture e un grande conoscitore del repertorio classico, e legge queste pagine alla luce della classicità, con momenti un po' ruvidi e una dinamica particolare, e per mode di dirigere non lascia mai perdere una grande freschezza e giovinezza che sembra intrinseca : Questo a volte scuote le abitudini di ascolto, ma rimette anche tutta questa musica in una continuità che dà a queste letture un'originalità paradossale ; perché le legge come se fossero parte di una storia, e ci fa anche sentire la loro modernità : non siamo qui agli inizi di una musica romantica, ma in una tradizione più antica che pure suona “moderno”, ciò che non sospettavamo, e che ci salta addosso, come  un "colpo di scena". È quello che mi piaceva tanto nella sua Iphigenie en Tauride  cosi dinamica di Zurigo, che aveva scioccato alcuni ascoltatori che aspettavano il Gluck monumentale e statuario, dove l'orchestra non era in marmo ma in movimento, immerso nel gesto teatrale.

L'impressione è la stessa qui, ogni momento sinfonico è teatro, mentre ogni momento teatrale è anche musica, strumenti brutali, soste, poi momenti molto dinamici, anche agitati, vorticosi, volteggianti, ma sempre con un'estrema attenzione ai dettagli, con chiarezza di lettura e di resa, e anche una volontà di far sentire il senso, l'ironia lì, il lirismo qui, sempre a sostenere la voce, senza mai coprirla, senza mai occupare i riflettori, con grande attenzione alla scelta dei tempi e del respiro.

In questo tipo di concerto, le parti sinfoniche sono spesso dei buchi di riempimento che permettono alla voce della “Star” di riposare. Così il pubblico ascolta gentilmente e passa il tempo con pazienza. Niente di tutto questo qui, ogni momento cattura l'attenzione, perché non c'è tempo morto ; l'interesse è costantemente sollecitato perché questa musica, conosciuta o sconosciuta, suona come uno stimolo : riscopriamo l'ouverture dell'Italiana in Algeri o di Don Pasquale come scopriamo quella di Don Quisciotte. È un momento che richiede disponibilità e curiosità, e siccome c'è stata una tale mancanza di musica dal vivo, è un immenso privilegio lasciarsi andare a qualcosa di nuovo, come se si aprisse un Sesamo.

Due dei brani orchestrali intercalati tra le arie sono ben noti, ma il terzo (che apre il programma) è l'Ouverture di Don Quisciotte di Manuel Garcia, un po' sorprendente. In relazione alla sua carriera, ci si aspetterebbe un pezzo segnato da Rossini, e se si sente qua e là il Cigno di Pesaro, ci si trova subito di fronte a un tono più sinfonico con echi singolari cherubiniani, persino beethoveniani (il che è tutt'altro che contraddittorio): si conosce l'influenza diretta o indiretta di Cherubini sugli stili musicali di inizio Ottocento e su Beethoven. Il colore è comunque molto più "Ottocento° che “Settecento°, con una bella dinamica, una grande precisione degli attacchi, fiati eccezionali, e un finale che fa pensare in certi tratti al finale di Lodoïska (Cherubini, 1791) la cui influenza sotterranea è stata importante, fino a Brahms. Il pezzo dà una nuova idea di Manuel Garcia, meglio conosciuto come cantante che come compositore oggi. È l'apertura del concerto di stasera dà un profumo di scoperta.

Molto più conosciuta, l'ouverture de L'Italiana in Algeri, come quella di Don Pasquale, suona qui in modo più singolare. Suoni acuti, niente rubati, momenti incisivi, e una dinamica incredibile che porta via l'ascoltatore in un vortice, si nota anche che in questa apertura si sente ancora un giovane Rossini (1813), tracce di qualcosa di meno levigato, mentre si apre nella seconda parte verso il Rossini del (prossimo) futuro. C'è qualcosa di straordinariamente virtuosistico (i fiati, soprattutto l'oboe di Pierluigi Fabretti), in questa partitura sottolineata dall'orchestra in grandissima forma . Ci permette di percepire uno stile non ancora completamente "costruito", e senza dubbio il suono dell'orchestra lo fa capire, più che nelle registrazioni con le orchestre moderne. Questa brutalità e questa dinamica rimangono singolari, ma con un'evidente presa sul pubblico che fa trionfare questa interpretazione. Gli strumenti antichi danno a Rossini qualcosa di un po' ruvido, a volte meno fluido, e allo stesso tempo qualcosa che lascia senza fiato, con un'alternanza di momenti vertiginosi e suoni come in rottura.

Ma è senza dubbio l'ouverture di Don Pasquale che più ci sorprende, e ci fa rimpiangere amaramente che la produzione salisburghese non abbia potuto vedere la luce nel 2020, nell'edizione rielaborata dallo stesso Capuano. Prima di tutto perché è inteso come un substrato rossiniano notevolmente nel modo di costruire il crescendo, ma allo stesso tempo una chiara inflessione (siamo nel 1843) verso qualcos'altro, verso lo stile dell'Opéra-Comique alla Auber. Anche qui la sorpresa è grande e di una rara seduzione : questa alternanza di brutalità e raffinatezza si ritrova come in altri brani orchestrali, mostrando l'estrema duttilità dell'orchestra (la vedremo anche in bis con stili radicalmente diversi) che si ritrova in tre brani contemporaneamente diversi, ma correlati. Questa interpretazione ci mostra come gli sguardi che legano l’opera alla sua epoca possano cambiare completamente un'esperienza d'ascolto : o guardiamo Donizetti con lo sguardo retrospettivo, attraverso il prisma del futuro e soprattutto di Verdi, oppure guardiamo il passato ed è il risultato di una carriera iniziata nell'ammirazione sperduta di Rossini, e sentiamo tutto il viaggio venire da lontano nel tempo. Già gli accordi iniziali sono presi a un ritmo sconcertante (ancora più veloce del Muti del 1972, è tutto dire…), poi la rottura ancora più brutale con l'estremo rallentamento della parte iniziale del cellista che segue e un intero inizio che suona come musica da camera (con il sublime corno di Ulrich Hübner), per condurre alla melodia di "So anch'io la virtù magica…" con un altro esempio di virtuosismo "rossiniano"; poi tutto si eccita, in una festa dove le stride del flauto e “la seta” più consueta degli archi si mescolano in un frenetico turbinio. Questa frenesia del suono, raramente l’avevo sentito prima, con una tale chiarezza, e soprattutto con un tale rigore che fa percepire tutto : un Donizetti fuori dal comune e così concentrato ! Presto, un Don Pasquale completo per favore !  Perché questa apertura riesce già a "stupire"

Javier Camarena

E naturalmente, eravamo venuti per sentire Javier Camerana, con quel piacere di stare in un teatro, dal vivo, con un pubblico, successione di sorprese (e delizie) in quei tempi… Ma c'è davvero qualcosa di cui stupirsi. Va sottolineato che fin dal disco "Contrabbandista" (DECCA 2018), ha eseguito spesso queste arie con Les Musiciens du Prince e Capuano, e che questo lavorare spesso insieme si può ovviamente sentire mentre l'orchestra respira all'unisono con questa voce eccezionale, che qui affronta sia il buffo che il lirismo, arrivando fino a Lalo, nella famosa aubade di Mylio, dove in un francese molto chiaro, dimostra la sua capacità di avvicinarsi a un repertorio tardo-ottocentesco con le stesse qualità di controllo che mostra nel suo repertorio preferito. Il belcanto è anche una magnifica scuola di fraseggio, tenuta del respiro, dizione, linea di canto, che può aprire a tutti i repertori, a condizione che queste qualità primarie siano messe a frutto.

L'aria di Tebaldo di Capuleti e i Montecchi conferma ciò che ci piace di questo artista e prima di tutto l'estrema facilità nel registro acuto, senza sbavare nei passaggi, mantenendo il controllo della voce e la sua omogeneità, senza problemi di respiro e con le sue eminenti qualità di fraseggio, oltre a un timbro di rara purezza e di bella luminosità : la voce non balla mai e mantiene questa sicurezza che non smette di affascinare.

Più sorprendente è l'aria Più dubitar mi fan… Là dai regni dell'ombra… di Giulietta e Romeo di Nicollò Antonio Zingarelli, che inizia con un recitativo accompagnato dal violoncello che suona quasi mozartiano, ma l'aria per la sua dinamica, per il suo tono, ci ricorda sia i predecessori (Gluck) che soprattutto Cherubini, per me inevitabile alla fine del Settecento. Un'aria vivace, giovanile, vertiginosa di ritmo, con un acuto stratosferico, ordinaria amministrazione da parte di Camarena , ma soprattutto una sorprendente precisione di articolazione in un'aria così veloce. Semplicemente abbagliante.

Un po' meno rara, la cavatina di Ricciardo e Zoraide, S'ella m'è ognor fedele… Qual sarà mai la gioia… (Atto I) dove si trovano qualità di finezza e di controllo, con cadenze di una rara sicurezza soprattutto nell’acuto, lasciando però il registro grave a volte leggermente meno chiaro (ma è davvero da cavillare). Riesce a dare un'interiorità che non si trova spesso in questo tipo di aria, aiutato da un'orchestra che lo sostiene in modo davvero eccezionale.

Con l'aria di Ramiro de Cenerentola Si, ritrovarla io giuro… Ritroviamo il grande repertorio e Camarena in uno dei suoi cavalli di battaglia, con l'ovvia facilità che ne deriva. L'orchestra, molto abituata a quest'opera che ha eseguito più volte, è molto presente (bellissimo il gioco degli archi gravi e del flauto). Vi si ritrova la meravigliosa linea del canto, l'omogeneità dal grave all'acuto e la perfezione del fraseggio : è una lezione di canto, una lezione di canto rossiniano come si deve. Bisogna sentire come orchestra e voce si intrecciano durante i leggerissimi sillabati… Assolutamente antologico. Quest'aria da sola giustifica il posto di Camarena nel Pantheon dei rossiniani.

 

Javier Camarena

Prima del finale pirotecnico (la famosa aria di Tonio  da La fille du régiment Ah ! Mes amis, quel jour de fête…), Camarena passa facilmente da una cima all'altra, scatenando l'entusiasmo del pubblico e aprendosi su una serie di quattro bis, altre due arie che hanno la lingua francese in comune con quest'ultima, offrendo un finale di tre arie in francese benché Camarena abbia confesso al pubblico avere una scarsa padronanza della lingua. Modestia senza dubbio perché la dizione è impeccabile, il discorso chiaro, qualunque siano i ritmi e i tempi, qualunque sia la respirazione e qualunque sia il tipo di aria, perché tutti e tre non hanno assolutamente nulla in comune.

Prima di tutto, torniamo a Garcia, quella di La Mort du Tasse, un'opera del 1821 su libretto di Chevalier Cuvelier Détrie e Helitas Demeun : l'aria Mais que vois-je, une lyre ! …Vous dont l’image toujours chère… è un momento speciale per il magnifico intervento dell'arpa di Flora Papadopoulos, uno di quei momenti di sospensione che non ti aspetti e che illumina l'intera aria dandogli il suo colore, ma anche per il corno decisamente straordinario di Ulrich Hübner. Ecco un'aria che anticipa le arie tenorili del Grand–Opéra alla Meyerbeer o Halévy, come Raoul (Ugonotti) o Leopold (La Juive) e naturalmente l'Arnold rossiniano (Guglielmo Tell): emissione impeccabile, stile irreprensibile e tecnica di ferro, con note alte emesse con una leggerezza che confonde per la sua facilità, per non parlare della cadenza finale punteggiata dal corno decisamente magico che provoca nel pubblico ipnotizzato un breve momento di silenzio.

Sempre nell'espressione lirica più che negli acuti dimostrativi, l'aubade di Mylio da Le Roi d'Ys di Lalo, che inizia anche con poche parole accompagnate dal violoncello, con un ritmo più marcato e vivace, ma non abusando degli acuti (basta l’aria de La Fille du Régiment che segue per gli acuti), è qui un canto più fluido, che fa sentire le qualità del fraseggio e dell'espressione, e soprattutto un controllo della voce nei filati perfettamente tenuti. Un altro momento sorprendente, Quasi da Werther.

Abbiamo evocato l'aria finale di Tonio e le sue perle accumulate negli acuti come in una collana, e alla grande insistenza del pubblico (ma non si fa pregare troppo), Javier Camarena darà come primo bis la famosissima Danza di Rossini ad un ritmo mozzafiato dove ciò che conta non è tanto l'acuto ma la qualità del sillabato e la perfetta "sintonia" con l'orchestra : il pubblico esplode davanti all'esecuzione.

Passiamo poi a un altro esercizio, completamente diverso, con un'aria del repertorio cubano che sembra aver cullato la gioventù messicana del cantante Contigo en la distancia di Cesar Portillo de la Luz dove in un repertorio così diverso, ma nella sua lingua madre, trasmette meravigliosamente l’emozione in un genere molto idiomatico con un ultimo acuto da impallidire.

Cecilia Bartoli (Angelina), Gianluca Capuano (che dirige), Javier Camerena (Ramiro)

Di nuovo Rossini, e di nuovo Cenerentola, ma con una bella sorpresa : il duetto Angelina-Ramiro del primo atto con Cecilia Bartoli, che entra in grembiule con una scopa che pulisce il pavimento tra i musicisti. La cantante, la cui presenza ovviamente riempie il teatro di gioia, dimostra sempre le stesse qualità di presenza, di interpretazione e intelligenza nell'espressione, un momento di puro piacere, anche festoso : l’opera è  in festa quando dal pubblico replicano (bisogna trovare delle sorelle e un Magnifico che chiamano “Cenerentola!”), due cantanti della prossima produzione di Thaïs e Ludovic Tézier, occasionale magnifico e spettatore “en passant”, durante le prove per il ruolo di Athanaël.

Ed è un tale delirio che si crede che questo sia il bouquet finale… Ma no, Camarena è generoso e ci offre ancora un'aria del suo paese, il Messico, dell'unica compositrice messicana la cui fama è andata oltre i confini, Maria Grever.

Una serata davvero eccezionale, e non solo perché è un'isola di magia e beatitudine in mezzo all'oceano di problemi che stiamo attraversando, ma perché siamo tornati alla musica, verificando ancora una volta che l'esperienza dal vivo, cioè dell'umano e della condivisione della gioia, è unica. E ne siamo usciti ubriachi di felicità.

Javier Camarena e Gianluca Capuano

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