Georges Bizet (1838–1875)
Les pêcheurs de perles (1863)

Direzione musicale:Daniel Barenboim
Regia : Wim Wenders
Scene : David Regehr
Costumi : Montserrat Casanova
Video :  Donata Wenders & Michael Schackwitz
Luci : Olaf Freese
Maestro del coro : Martin Wright
Dramaturgia : Detlef Giese

Leïla : Olga Peretyatko-Mariotti
Nadir : Francesco Demuro
Zurga : Gyula Orendt
Nourabad : Wolfgang Schöne

Staatskapelle Berlin
Staatsopernchor

Staatsoper im Schillertheater – Berlino, il 22 giugno 2017

Chi avrebbe pensato che l’ultra settantene Daniel Barenboim, leggenda vivente della direzione musicale per Wagner avrebbe diretto Les Pêcheurs de perles di Bizet, raro in Francia e rarissimo in Germania, se Wim Wenders per la sua prima regia d’opera non gli avesse proposto il titolo. Produzione simbolica anche perché è l’ultima nel Schillertheater, dopo 7 anni di lavori alla Staatsoper Unter den Linden. L’universo dell’opera di Bizet è talmente estraneo a quello musicale di Barenboim che tutto ciò sembra un po’ irreale.
Eppure è successo l’ultimo 24 giugno, e di colpo questa produzione fa più per
Les Pêcheurs de perles in una serata che tante produzioni altrove.

 

Il pezzo è cosi raro che la sua programmazione nel cartellone della Staatsoper di Berlino, in occasione della prima regia d’opera di Wim Wenders, e diretto da Daniel Barenboim in persona, ha provocato un tale rush del pubblico che non era possibile trovare nessun biglietto.
Infatti, Wim Wenders, al quale Barenboim aveva proposto una regia lirica, ha indicato come titolo Les Pêcheurs de perles, perché l’opera di Bizet (1863, dodici anni prima di Carmen) l’aveva segnato durante gli anni di gioventù in California, dove ascoltava spesso nel Juke Box il duetto Nadir-Zruga e l’aria di Nadir. Barenboim ha guardato la partitura è ha accettato di dirigerla.
Il pericolo di quest’opera è evidentemente il kitsch : la trama si svolge a Ceylon e tra palme e brahmani, è facile slittare verso un pittoresco molto “Opéra-Comique”, che non serve di sicuro la visione che lo spettatore ne può avere.
L’opera è singolare, con un coro enorme (più di 80 coristi) e solo quattro personaggi tra cui tre protagonisti, il famoso triangolo amoroso che vede due amici per la vita innamorati della stessa donna, una sacerdotessa che ha fatto il voto di castità.
Wim Wenders ha evitato il pericolo del kitsch : scena vuota, nera, proiezioni molto cupe (mare, onde,  nuvole, ombre di palme) una spiaggia sabbiosa, qualche fumo, costumi senza tempo. Solo il coro nel primo atto porta costumi gialli-zafferano (colore dell’induismo) e capelli rossi, macchia di colore e di luce che contrasta con il nero.
Quello che caratterizza lo spettacolo sono immagini sublime, luci molto curate, grande semplicità, universo ieratico. Wenders costruisce uno spazio molto spoglia, che lascia svolgersi il dramma ; un universo che potrebbe convenire a Tristan und Isolde, o a certe scene del Ring (Wenders fu invitato a Bayreuth a dirigere il Ring 2013, ma il progetto fallì per problemi di diritti video, e Katharina Wagner chiamò Castorf).
Quello che colpisce anche è il tempo della produzione in perfetta sintonia tra buca et palcoscenico. C’è in qualche senso tra immagini e suono una Corrispondenza ((nel senso del poeta Baudelaire)) che costruisce un sistema di echi poetici. Le immagini trovano il loro senso nella musica, particolarmente sottile e raffinata.

Certo, siamo agli antipodi del Regietheater, Wenders non propone una regia drammaturgica, ma estetica, Wenders non propone una “lettura”, ma solo un sistema di evocazione, poco realista, anche un po’ passito, di altri tempi, evitando sempre il realismo che non avrebbe posto in quel caso. È l’iscrizione della storia in un sistema d’immagini, proiezione dell’impressione prodotta dalla musica, dove i personaggi esistono, ma lontani e al limite dell’immateriale : l’uso del velo di Leïla, spesso leggero e angelico, n’è e l’esempio, perché, quando è gettato rabbiosamente, diventa il simbolo del voto della sacerdotessa che pesa sulla storia : il leggero diventa pesante…
L’assenza di realismo dei costumi accentua anche questa impressione : il vestito ocra di Nadir, chiaro, elegante, è anche totalmente estraneo all’ambiente, di fronte al nero di Zurga, al bianco del velo di Leïla. C’è una singolarità dei personaggi il cui statuto è visto dal vestito. Nadir, viaggiatore, luminoso, Leïla, bianca e (almeno in teoria) pura, Zurga in nero, potere e rigore. Si notano anche immagini particolari, come l’ingresso di Nourabad sorprendendo Leïla e Nadir, che sembra emerso dalle nuvole, come Wotan in Walküre, immagine wagneriana quasi epica.
In questo paesaggio astratto, ogni personaggio non è quello che pare, e il gioco del dramma è di lavorare su essere e apparenza, sul tessuto sottile delle relazioni amicali e delle rivalità, dove Zurga sembra il più complesso, ma anche il più maturo più consistente e profondo. Nadir e Leïla sembrano più leggeri o spensierati (perché sono tenore e soprano?),. E ciò si sente nel canto.
Wenders inserisce tutto questo in modo raffinato, ma riferendo anche ad un’immagine dell’opera lirica del passato, in una tradizione che si credeva sparita : non si dirige più così un coro numeroso, massa compatta seduta o in piedi, occupando tutto lo spazio di fronte alla ribalta con luci che differenziano anche i gruppi e isolano individui, ma con gesti di una volta oggi assai rari sulle scene.
Lo stesso per la regia degli attori minimalista assai e dei movimenti o gesti. I cantanti sono un po’ lasciati a se stesso e a loro atteggiamenti tradizionali, ai “fondamentali “(per così dire) del cantante-attore. Nel caso di Leïla, è anche più caricaturale, con quei gesti supposti essere di preghiera, nati da corografie indiane, mani sopra la testa come nei rilievi asiatici, o movimenti delle braccia che si vogliono orientali.
Un essere cosi raffinato come Wenders ha senz’altro percepito questa tensione, e queste cose d’altri tempi, ma non è intervenuto volendo senza dubbio lasciare quest’impressione di distanza tra scena, storia e spettatore : questo mondo vecchiotto e queste immagini tecnicamente impeccabili che si incontrano finiscono per far emergere una certa soavità, una dolcezza poetica, molto pacata di un oriente lontano, sognato, che non si era visto da tempo in un grande teatro, segnato da una certa coerenza e anche di un grande rigore. Ho la convinzione che il vecchiotto è voluto, volontà di andare a cercare nell’opera di Bizet qualche Eden perduto, il verde paradiso degli amori infantili ((l’espressione è di Baudelaire nella poesia Moesta et errabunda)).

Impossibile giudicare di questo lavoro senza parlare della musica, del lavoro musicale profondo su un’opera cosi rara, senza cantanti francesi nel cast composto da un tedesco (Nourabad), una russa (Leïla) , un italiano (Nadir) e un ungherese (Zurga), che hanno tutti lavorato sodo sulla dizione, sulla chiarezza del testo, con rigore e precisione.
Wolfgang Schöne era Nourabad : il cantante fu grande qualche tempo fa, e il suo timbro un po' spento e la proiezione un po' problematica non impediscono una notevole composizione : è un personaggio, a volte paterno, a volte minaccioso, e lascia vedere un profilo forte. I suoi interventi più importanti, verso la fine, sono convincenti.
Francesco Demuro è stato un Nadir con voce molto chiara, e raffinata assai anche se il ruolo può essere considerato un po’ più affermato, quasi più “maschio”. Questa chiarezza dà un’impressione forte di leggerezza. La tecnica è impeccabile : l’aria Je crois entendre encore, fatta di filati e di estrema tensione vocale è magnifica di emozione trattenuta, con timbro chiaro e puro, proiezione ideale e bellissima dizione. Nel giorno della prima aveva all’inizio un po’ di difficoltà con i sovvracuti, dove si stringeva un po’ la voce, ma poi si scalda e la fine del primo atto e tutto il secondo sono notevoli per la freschezza, la limpidezza e l’espressione. Veramente una splendida prestazione.
Leïla era affidata ad Olga Peryetatko-Mariotti. Questa specialista del ruoli rossiniani ha le qualità per questa parte acuta, molta tecnica. La dizione non è sempre chiara, ma la proiezione bella, e gli acuti a posto, la fluidità e l’espressività notevoli. Qualche asprezza (più che difficoltà) nei trilli, dovuta a un tempo forse troppo lento che obbliga la cantante a grande sforzo. Tecnicamente ci siamo, meno nell’effetto prodotto. La composizione rimane convincente, con bella personalità scenica. Nessun dubbio : la Peretyatko diventa oggi ipso facto la Leïla del momento, con un canto più maturo di quello di un soprano leggero tipo usignolo, e le risorse più consistenti, e più dominate di un lirico.
La scoperta più grande, è il Zurga del baritono ungherese Gyula Orendt, che fa parte della troupe della Staatsoper di Berlino : perché cercare altrove quando si possiede l’eccellenza a casa ? Questo canto è incarnato, fin d’all’inizio commovente, fin dall’inizio con incredibile senso della nuance, con dizione perfetta, voce perfettamente impostata e una cura notevole del dire e dell’espressione, fino ai minimi dettagli. La sua aria dell’ultimo atto (l’orage s’est calmé) tutta interiorità, tutta umanità, con bei acuti è un grande momento. Non c’è dubbio, siamo davanti ad un cantante che deve contare nel prossimo futuro tra i baritoni importanti : tale prestazione in una parte difficile e rara è semplicemente eccezionale.

Il coro diretto da Martin Wright, non ha una dizione sempre chiara, ma è stato impressionante per l’espressività, curando ogni nuance musicale, e dimostrando presenza e forza. Esempio di professionalità e di padronanza.
Infine, ultima sorpresa per una serata che ne ha procurate tante, la direzione di Daniel Barenboim, semplicemente eccezionale. Una direzione molto difficile da immaginare quando si fa riferimento alle sue interpretazioni wagneriane o addirittura verdiane, anche se frequenta Mozart e Schubert. Chi poteva immaginare che un direttore di questa levatura potesse interessarsi a questa opera oggi un po’ dimenticata di Bizet, spinto dal mito personale di un regista nostalgico ?
Daniel Barenboim è un vero artista, con reazioni sorprendenti, anche nelle sfide, e che può da un giorno all’altro cambiare l’approccio di un’opera, i musicisti lo sanno bene. Per Les Pêcheurs de perles, ha voluto iscriversi direttamente nella visione di Wenders, in questa poesia eterea, un po’ lontana che le belle immagini dello spettacolo suggeriscono : alleggerisce il suono al massimo, l’orchestra (con organico assai leggero) è qualche volta appena percepibile . Fa emergere il suono da lontano, controllandone sempre il volume, soprattutto all’inizio, privilegiando l’ascolto di strumenti che tracciano un’ambiente, un universo ; come le arpe sempre fortemente messe a risalto.
Quello che colpisce anche, è il lirismo, la dolcezza, la soavità di certi momenti senza che mai la buca coprisse il palcoscenico. In un teatro dove il rapporto scena-sala è cosi’ vicino, il direttore vuole privilegiare l’espressione dell’intimo e accompagnare i cantanti senza mai mettersi in primo piano, senza mai essere protagonista, cercando ad accompagnare nel modo più sottile e delicato l’insieme : anche i forte dei momenti più drammatici rimangono molto controllati. La direzione molto trattenuta del duetto Au fond des golfes clairs, momento più famoso della partitura, lascia le voci espandersi : si potrebbe immaginare un’orchestra più presente, più insistente, ma è un’accompagnatore discreto, con intensità e senso poetico .
Questa direzione sconvolgente permette di porre uno sguardo nuovo sull’opera e soprattutto sulle raffinatezze della sua orchestrazione : Barenboim cerca a renderne la limpidezza e far sentire tutta l’inventività e tutti gli elementi che segnano il genio di Bizet. Nella Carmen, esaltando nello stesso modo le raffinatezze della partitura, Barenboim esaltava anche i momenti più sinfonici, invece per Les Pêcheurs de perles, dà all’insieme un colore quasi cameristico. Ma colpisce soprattutto il lavoro di merletto tra scena e buca, il colore dell’orchestra corrispondendo ai colori, e all’universo voluto da Wenders segnato dalla poesia : dai momenti più lirici alle tempeste, c’è cosi’ perfetta adeguazione tra suono e visione che viene in mente il concetto di Gesamtkunswerk, con esito particolarmente positivo su un’opera che molti considerano secondaria della quale questa produzione ricorda appunto l’interesse.

Come lo hanno ricordato Jürgen Flimm il sovrintendente della Staatsoper di Berlino e Daniel Barenboim durante la festa del dopo Prima, dove tutto il pubblico era invitato, era l’ultima nuova produzione al Schillertheater, un’avventura durata i sette anni dei lavori complessi e discussi della sede storica della Staatsoper unter den Linden, e che ha dato a questo bel teatro degli anni cinquanta una vita e un fascino fatto di semplicità, di familiarità e quasi di intimità che la sontuosità delle Staatsoper non permetterà. Certo, per i lavoratori del teatro le condizioni erano forse più difficili, ma lo spettatore si è abituato e ha assai presto apprezzato l’ambiente particolare che l’amministrazione dell’Opera ha saputo instillare negli spazi. Non senza una certa nostalgia si lascia Birmarckstrasse per ritrovare Bebelplatz : Berlino deve trovare una bella destinazione al Schillertheater.

 

 

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