Falstaff
Giuseppe Verdi (1813–191)

Coro e orchestra del Teatro alla Scala
Produzione del Festival di Salisburgo

Direction musicale Zubin Mehta
Mise en scène Damiano Michieletto
Décors Paolo Fantin
Costumes Carla Teti
Lumières Alessandro Carletti
Vidéos Roland Horvath
Falstaff Ambrogio Maestri
Ford Massimo Cavalletti
Fenton Francesco Demuro
Dr Cajus Carlo Bosi
Bardolfo Francesco Castoro
Pistola Gabriele Sagona
Mrs Alice Ford Carmen Giannattasio
Mrs Quickly Yvonne Naef
Nannetta Giulia Semenzato
Meg Page Annalisa Stroppa
Teatro alla Scala, 5 febbraio 2017

Ancora un Falstaff alla Scala, dopo 2013 (Carsen, Harding) e 2015 (Carsen, Gatti). Questa volta il titolo di nuovo in cartellone viene giustificato dalla produzione di Damiano Michieletto portata da Salisburgo nei bagagli di Alexander Pereira, con la direzione di Zubin Mehta. In un week-end di febbraio, due produzioni salisburghesi (con Don Carlo) la cui presenza in cartellone può essere discussa, aldilà della qualità generale dello spettacolo.
Un
Falstaff doppiamente verdiano, che si svolge nella Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi, come un sogno-ricordo di un vecchio cantante

Il lavoro di Damiano Michieletto, regista italiano più richiesto nel mondo della lirica oggi obbedisce a un principe semplice : la trasposizione in universi moderni che da senso alla trama dell’opera  per un pubblico contemporaneo. Si è dedicato molto a Rossini, invitato regolarmente al Rossini Opera Festival di Pesaro, a Mozart con il ciclo Mozart-Da Ponte alla Fenice, un po’ meno a Puccini e a Verdi, con un Corsaro a Zurigo e Un ballo in maschera molto discusso alla Scala. Per questo Falstaff nato a Salisburgo, Michieletto fa del capolavoro verdiano la storia di un sogno-ricordo di un vecchio interprete di Falstaff nella Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi. Le scene di Paolo Fantin ricostituiscono con esattezza gli ambienti di Casa Verdi, l’avventura di Falstaff si gioca tra sogno e realtà, dando all’insieme una vera dinamica nonché il profumo leggero della nostalgia.
Michieletto ha notato che l’architetto Camillo Boito costruiva la casa di riposo mentre il fratello Arrigo scriveva il libretto del Falstaff. Faceva inoltre notare che Verdi voleva la sua casa di riposo per artisti che non erano stati abbastanza previdenti e parsimoniosi quindi troppo spensierati nella loro vita : tanti motivi per fare di Sir John Falstaff, vivendo l’istante senza mai pensare al futuro, una figura che potrebbe appartenere a questa casa.
Cosi Michieletto sottolinea tutto quello che la vecchiaia porta con se di sogni, di bilanci malinconici, di speranze illuse. Il cantante che è Falstaff avrebbe potuto essere il grande Falstaff decaduto di una volta , oppure il Falstaff che ha sognato senza esserlo mai stato.
Tra essere ed esser stato, la regia naviga tra farsa dolce e realismo malinconico, con l’immagine della morte sempre implicita nel lavoro. Michieletto coltiva l’ambiguità, fino al finale, chiaramente costruito come veglia funebre.

Il vecchio cantante s’addormenta e il mondo attorno a lui fatto d’infirmiere, badanti, medici e convittori, si trasforma in personaggi dell’opera, in immagini oniriche e malinconiche, anche tristi e laceranti. La parte farsesca viene spesso cancellata, come se si trattasse di un canto del cigno irrimediabile, ultimo soprassalto, ultima traccia di calore prima del freddo eterno.
Una direzione di attori molto attenta segna questo lavoro, dove tutti sono molto impegnati. In particolare Ambrogio Maestri, che è stato il vecchio Sir John tante volte, propone un nuovo personaggio, giocando con efficacia dei due personaggi quello del vecchio cantante e quello del Falstaff, esagerando il secondo per meglio incarnare il primo. Splendido lavoro cesellato, sottile, che non può nascere che da una lunghissima familiarità con il ruolo e voce ovviamente notevole (Onore!). Ovvio che il partito preso della regia impone soluzioni diverse, forse meno spettacolari, ma idonee con l’ambiente, come Falstaff racchiuso nel copripiumone gigante invece di essere buttato nel Tamigi, mentre l’acqua viene figurata da squagli di carta lucidata azzurra lanciate dagli altri personaggi, marcando il “tutto il mondo è burla” del libretto ; in altri momenti,  la burla lascia spazio alla poesia, come quando la coppia innamorata Fenton/Nanetta diventa il doppio di una coppia di vecchietti innamorati di Casa Verdi : una delle scene più commoventi della serata.

Il cast riunito è differente assai di quello proposto a Salisburgo, e nella sua parte femminile di quella della Scala due anni prima nella produzione Carsen.
Massimo Cavaletti è Ford come due anni prima con Gatti. Aveva colpito molto perché il personaggio voluto da Carsen gli conveniva forse meglio . Rimane un po’ più anonimo in questa regia, dove è in sedia a rotelle, ma sempre con le stesse qualità di dizione, di fraseggio, e di proiezione.
Questa produzione impone un cast equilibrato, dal quale nessuno emerge, dal quale tutti sono protagonisti, dove nessuno fa un numero da circo, il contrario della produzione Carsen dove ciascuno aveva il suo momento.
Carlo Bosi rimane un‘eccellente Dr Cajus, come sempre, con bella proiezione e voce potente assai (un pochino troppo forse) , e i due compari Bardolfo e Pistoia (Francesco Castoro e Gabriele Sagona), con presenza discreta e continua, giocano e cantano senza mai essere caricature.
Sul lato femminile, ritroviamo con piacere Yvonne Naef, cantante sempre brava, nella parte di Quickly : dice il testo con intelligenza e espressività rara. Naef difende una Quickly che potrebbe essere un’Alice invecchiata, non priva di sensualità senza mai essere una caricatura. Carmen Giannattasio, Alice molto lirica, molto presente vocalmente, con cura dei colori sa perfettamente modulare il volume in particolare nei concertati. La coppia Francesco Demuro (Fenton) e Giulia Semenzato (Nanetta) è benissimo profilato scenicamente. Demuro, più convincente che due anni fa e la fresca sensualità di Giulia Semenzato compongono una coppietta in fase con la regia, con la freschezza di un canto ben cesellato e piacevolissimo. E la Meg Page di Annalisa Stroppa approfitta delle qualità di attrice della cantante, che sa dare personalità (e voce anche) a una parte un po' meno esposta.
Se il coro della Scala, legato a quest’opera da 114 anni ha Falstaff nei geni e propone una prestazione notevole, l’orchestra, pur impeccabile come spesso in quest’opera, non ha fatto sentire le raffinatezze che Gatti aveva esaltato due anni prima, né l’energia di Harding quattro anni fa. Zubin Mehta propone infatti una direzione fluida, con tempi più lenti rispetto al solito, ma senza la brillantezza attesa, forse per segnare la malinconia dominante della produzione. Pero si rimane un po’ delusi del modo di far suonare l’orchestra.

Senza insistere sulle riserve che potrebbe suscitare la programmazione del terzo Falstaff in 4 anni a dispetto di altri titoli, rimane vero che questa intelligente produzione, magnificamente interpretata, ha permesso l’esplorazione di altri spazi della fantasia , altre visioni possibile, coerenti e inventive. I capolavori sono inestinguibili.

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