Vincenzo Bellini (1803–1835)
I Capuleti e i Montecchi (1830)
Tragedia lirica in due atti
Libretto di  Felice Romani tratto dalla pièce omonima di Luigi Scevola (1818), ispirata a Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti di Luigi da Porta (1524) e alla Novella IX di Matteo Bandello (1554).

Prima assoluta al Teatro La Fenice di Venezia, 11 marzo 1830

DIREZIONE MUSICALE : Daniele Gatti
REGIA, SCENE, COSTUMI E LUCI : Denis Krief
MAESTRO DEL CORO :  Roberto Gabbiani

ROMEO Vasilisa Berzhanskaya
GIULIETTA Mariangela Sicilia
TEBALDO Iván Ayón Rivas
LORENZO Nicola Ulivieri
CAPELLIO Alessio Cacciamani

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma

Roma, Teatro dell'Opera, domenica 26 gennaio 2020, ore 16.30

Daniele Gatti torna a dirigere il Belcanto in questa produzione de I Capuleti e i Montecchi messa in scena da Denis Krief con un cast particolarmente giovane. Non ci sono mezze misure : il repertorio belcantista deve essere difeso prima di tutto da un canto sicuro e convincente. E spesso il direttore d'orchestra sembra nascondersi dietro i cantanti, così oggi sono pochi i direttori d'orchestra di grande fama che difendono questo repertorio.
In questa pomeridiana domenicale ciò che si è notato è stato in particolare il giovane mezzosoprano Vasilissa Berzhanskaia, un Romeo eccezionale, e la direzione dolce, contenuta, diafana di Daniele Gatti.

Impianto scenico : Atto secondo, ultimo quadro

Contrariamente a quanto si crede, I Capuleti e i Montecchi non è un remake di Shakespeare, ma si basa sulle fonti italiane che hanno ispirato Shakespeare (Romeo e Giulietta era all'epoca una pièce poco conosciuta in Italia), Luigi da Porta (1524) e Matteo Bandello (1554).
E ciò che colpisce subito da Bellini, rispetto al Romeo et Juliette di Gounod che abbiamo visto qualche giorno dopo alla Scala (vedi la nostra recensione), è il rifiuto dello spettacolare, il rifiuto di troppi personaggi, delle cose decorative e degli aspetti sfarzosi, ma al contrario l'estrema concentrazione sul dramma dei due amanti : pochi personaggi, pochi interventi corali, e solo due atti, la nascita dell'amore e la fine dell'amore. Si tratta di scelte fortemente drammatiche, che sono state criticate perché il libretto di Felice Romani appariva noioso e senza alcuna molla. È questo aspetto ieratico che accompagna la storia senza alcun abbellimento, con linee chiare e ben delineate che Denis Krief nella sua regia tiene in gran parte in considerazione.

Infatti si pone la questione della messa in scena dell'opera, sia attraverso la storia che racconta, sia attraverso la musica. È facile per un regista proporre una lettura di questo dramma, anche contemporanea. Le lotte di bande o di cosche l'una contro l'altra e i drammi che ne derivano, che sono storie comuni nel Medioevo, possono essere facilmente adattate nelle nostre città oggi, e un regista può farne un adattamento contemporaneo. Tuttavia, un certo Leonard Bernstein aveva già adattato il dramma in questo senso nel suo musical West Side Story (1957), e una regia che andava in questa direzione non poteva che essere una pallida copia. Allo stesso modo, le lotte tra guelfi e ghibellini, ormai un po' dimenticate, non sarebbero una chiave di lettura politica rilevante per leggere la trama incentrata sull'amore tra questi due giovani adolescenti i cui sentimenti trascendono le lotte e l'odio. La scelta di Denis Krief di concentrarsi sulla storia nella sua aridità, lavorando su una regia che metta a proprio agio i cantanti in modo che il canto sia il grande protagonista della serata è quindi perfettamente comprensibile… anche se il lettore sa che Wanderersite ama le regie drammaturgiche alla moda tedesca.

Denis Krief ha progettato la regia, la scenografia, i costumi e le luci per rendere il suo lavoro uno scrigno ideale per il Bel Canto, sapendo perfettamente che l'opera di Bellini è prima di tutto una celebrazione vocale, e che lo spettatore viene a godersela. Così le sue scene, fatte di legno (arcate stilizzate), con una parete che a volte isola le scene più intime, non distrae lo sguardo (siamo in contrasto con la pomposa e inutile facciata veronese del set di Michael Yeargan per la messa in scena di Gounod à la Scala di Bartlett Sher, ma Gounod non è Bellini). Krief ha da un lato a che fare con Bellini, con la concentrazione sull'essenziale e il rifiuto di inutili abbellimenti che abbiamo sottolineato, e dall'altro progetta scene a forma di scatola di legno, una perfetta cassa di risonanza per le voci, particolarmente confortevole per l'acustica della vasta sala di Roma.

Acte secondo : tavole pronte per  le nozze e confronto  tra Tebaldo (Iván Ayón Rivas) e Romeo (Vasilisa Berzhanskaia) (foto di prova)

Nella sua opinione quasi ideologica, Krief mostra anche quasi sfacciatamente un coro disposto "all'antica", rivolto verso il direttore, rifiutando di fare movimenti inutili che ostacolerebbero la concentrazione intorno alla musica. Così Krief si concentra su alcuni segni che sottolineano il significato delle scene, un abito da sposa appeso a un manichino durante la scena tra Romeo e Giulietta nel primo atto sufficiente a mostrare la minaccia, tavoli allestiti per il matrimonio nella sala nuziale nel secondo atto, e un sarcofago per la tomba di Giulietta (il cui coperchio è però sollevato con sorprendente facilità) per la scena finale, e che ricorderebbe una famosa fiaba (La Bella Addormentata). Segni in un ambiente che fa vedere solo segni essenziali.
Altri suggestivi segni delle lotte delle bande rivali come i costumi del coro ricordano irresistibilmente i contadini siciliani in preda alle lotte di clan. Questo è anche nello spirito del lavoro, visto che le lotte di clan a Verona non sono così lontane dalle lotte tra cosche mafiose siciliane, il feudalismo esiste e qua e la. Ciò che è importante per Krief è che i segni siano abbastanza chiari da far capire allo spettatore a vista, senza la necessità di mettere pesantemente in evidenza le cose e che il motto della serata sia Prima la musica.

Mariangela Sicilia (Giulietta)

Infine, la preoccupazione molto curata per la recitazione dei cantanti con bei gesti, momenti di sospensione, sempre giusti, delicati senza mai essere insistenti, conferisce all'ensemble un'eleganza sufficientemente marcata, senza che i gesti siano mai invadenti per lo spettatore. Tutto ciò rispetta l'intenzione iniziale, che è ovviamente quella di mettere l'ascoltatore e il cantante nelle migliori condizioni di comfort possibili di fronte alla musica.  E in questo senso, l'opera di Krief è notevole e pertinente : non è un lavoro  solo "estetico" nel senso di “decorativo”,  e presuppone una vera scelta, difendibile, coerente con l'opera, con lo stile di Bellini e con tutto il lavoro musicale.

La regia di queste opere belcantiste pone inevitabilmente un problema per il regista, perché queste opere sono prima di tutto vocali, sono le voci che sono oggetto di curiosità da parte del pubblico che non viene per la regia. Anche se per Bellini, in Norma o I puritani, e per Donizetti né Lucia di Lammermoor, Lucrezia Borgia o Anna Bolena possono essere messe in scena in modo più "drammaturgico", la condizione rimane quella di avere a disposizione cantanti con una tale personalità da poterle sostenere, come la Bartoli in Norma.

L'altra trappola del Bel Canto è ovviamente la qualità del canto e la scelta dei cantanti, perché è quello che fa l’interesse del pubblico. Quindi o il manager si arrende allo star system come Mortier a Parigi nel 2007/2008 chiamando Anna Netrebko (allora una giovanissima stella) e Joyce Di Donato, con uno stimato direttore d'orchestra (Evelino Pidò) a sostenerli, oppure cerca un'omogeneità del cast chiamando cantanti valorosi ma meno conosciuti, con un grande direttore d'orchestra che possa proporre una vera visione : ecco la scelta che è stata fatta a Roma, dove tutto è tenuto insieme da una chiave di volta di nome Daniele Gatti, ma dove si scoprono cantanti di tutto rispetto nel complesso, con un gioiello, il mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaia che con il suo canto ha illuminato il ruolo di Romeo.

Il direttore artistico Alessio Vlad ha scelto un cast giovane (infatti l'opera ha protagonisti giovanissimi) di voci che cominciano a farsi sentire regolarmente sui palcoscenici italiani. È il caso del tenore Iván Ayón Rivas, Tebaldo dal timbro molto seducente, che canta con vigore ed eleganza e che si fa sentire nei grandi ruoli del repertorio italiano (Alfredo o Nemorino) nei teatri della Penisola. La voce è ben proiettata, con colori bellissimi, un po’ cupi, e solo gli acuti – tra l'altro ben riusciti – possono qualche volta mancare di fluidità nei passaggi, ma l'intera performance è molto convincente.

Nicola Ulivieri (Lorenzo) e Mariangela Sicilia (Giulietta)

Nicola Ulivieri è un cantante bravo e affermato, e ben noto : è un Lorenzo solido, con un timbro caldo che si addice al monaco che protegge gli amanti.
Il Capellio d'Alessio Cacciamani con la sua autorità completa con grande onore i ruoli di supporto.

Mariangela Sicilia è stata annunciata come sofferente questa domenica pomeriggio. Il giovane soprano che avevamo sentito tempo fa al suo debutto (nel 2015) mi era molto piaciuta nella parte di Teresa nel Benvenuto Cellini di berlioz ad Amsterdam (vedi su Blog du Wanderer l'articolo (in francese) su questa produzione) di cui abbiamo scritto tra l'altro : “Raramente ho sentito una cantante così giovane avere una tale solidità, una tale sicurezza e una tale personalità vocale, con qualità sia nei pianissimi che negli acuti più ampi, con una vera tecnica di proiezione sapendo trattenere la voce, sapendo trattenere il respiro con rara intensità e poesia.”

Mariangela Sicilia (Giulietta)

Mariangela Sicilia è qui una Giulietta poetica, eterea, con una bella linea di canto, che padroneggia perfettamente le note alte, le mezze voci, con una rara delicatezza e una bella espressività.  Canto trasparente, cristallino, molto commovente, soprattutto in "Oh quante volte", ma anche molto affermata nella stretta finale del primo atto, sa incarnare perfettamente i diversi momenti del personaggio, dalla timida adolescente alla giovane ragazza, o anche alla donna determinata. Sa colorare questi diversi momenti della psicologia di Giulietta. Una magnifica prestazione.

Vasilisa Berzhanskaia (Romeo)

Accanto a lei, il Romeo della 26enne Vasilisa Berzhanskaia si sta già affermando come punto di riferimento. Avevo sentito alla Scala (con Muti) Agnes Baltsa imperiale e la straordinaria June Anderson, altri tempi… Ma la Berzhanskaia è sulla strada, molto vicina a raggiungere la cima. La voce è incredibilmente omogenea dal basso all'alto, è anche ampia, con dizione impeccabile, e particolarmente espressiva, con l'autorevolezza che questo ruolo di travestito ha ereditato dall'opera settecentesca (e dove i tentativi di farla cantare da un tenore sono falliti, vedi Aragall con Abbado su questo stesso palcoscenico e altrove nel 1967). Sia nelle note gravi sontuose e ben timbrate, sia nei centri affermùati che negli acuti trionfanti quasi sopranili, dimostra una sicurezza totale e una facilità stupenda. Ecco un artista da seguire con attenzione, che nei prossimi mesi canterà Sara di Roberto Devereux al Massimo di Palermo, e Sinaide di Moïse et Pharaon a Pesaro.
Il coro è molto ben preparato da Roberto Gabbiani e dà un'ulteriore prova della sua precisione e accuratezza in un repertorio che conosce bene in piena coerenza con la direzione musicale.

La direzione di Daniele Gatti dimostra che quando questo repertorio è diretto da un direttore d'orchestra di spicco, il lavoro trova accenti entusiasmanti e l'orchestra diventa subito oggetto d’interesse se non protagonista. Questo non significa che l'orchestra invada il palcoscenico, ma essa da un colore d'insieme che in questo caso conferma una coerenza tra palcoscenico, regia e buca.

Si era già notato a Monaco di Baviera quando Kirill Petrenko diresse una fiammeggiante Lucia di Lammermoor (o Karajan in passato): gli interventi dei grandi direttori d'orchestra in questo repertorio sono decisivi e cambiano il volto delle opere.

Lo si vede dall'ouverture, spesso diretta in maniera decisa, se non marziale, dove Gatti addolcisce tutti gli angoli,

in modo da farci capire (e questo è confermato nella prima scena), che si vuole sottolineare prima di tutto una fluidità, una delicatezza dell'opera a cui vuole dare un colore diafano. Questo modo di affrontare questo repertorio, dandogli un colore specifico, si riferisce essenzialmente al passato recente (Rossini e altri) più che all'immediato futuro (la stretta del finale del primo atto è in un certo senso più "verdiana" ad esempio).
Gatti tiene a sottolineare i delicati accenti di una tradizione in chiave rossiniana, a volte quasi mozartiana, e ad evitare accenti che annuncerebbero Verdi. Il risultato è una lettura dai colori pastello, dove tutto è come appena sfiorato, senza che il dramma stesso sia in alcun modo
attenuato, ma immediatamente segnato da una malinconia e da una tristezza ineffabile. È da molto tempo che non sentivamo un Bellini così delicato e allo stesso tempo così profondo. È meravigliosamente interpretato da un'orchestra tecnicamente sicura, impegnata e trasparente. Gatti qui afferma una forte distanza con interpretazioni che guardano a uno stile più deciso, che annuncerebbe le lacerazioni del romanticismo o anche come abbiamo scritto il Verdi del futuro. Qui si afferma una specificità stilistica, una triste storia di sentimenti puri dove la tenerezza intrinseca copre lo strappo drammatico di un velo di delicatezza.
La presenza della coppia soprano-mezzosoprano contrasta per colore e timbro con le voci maschili, il tenore con accenti piuttosto scuri e i due bassi : e Gatti coglie queste opposizioni di colore accompagnando la scena con marcata discrezione, ma anche dando una cornice di sostegno permanente alle voci che fa respirare con rara precisione. Un mese dopo aver mostrato né Les Vêpres siciliennes un Verdi che cerca di riscoprire i colori della tradizione francese, mostra qui un Bel Canto con colori decisamente legati al primo Ottocento. Infatti, ascoltiamo spesso certi momenti di Bellini e Donizetti pensando a Verdi – che viene dopo – dimenticando tutta la tradizione dei compositori dell'epoca, i Vaccaj (che scrisse anche Giulietta e Romeo anche lui su libretto di Felice Romani), i Coccia, Pacini o Mercadante, tutti coloro che all'epoca costruivano l'opera italiana ottocentesca e che oggi sono dimenticati a favore della triade Bellini Donizetti Verdi. E questa tradizione, questo modo di fare l'opera, Gatti ne tiene conto qui, dando questo colore quasi distaccato a Capuleti e Montecchi (un'opera creata nel 1830, cioè alla vigilia di un romanticismo più accentuato che l'opera non abbraccia ancora). È insolito, è nuovo, ed è convincente.
Non rimane che sperare di tornare a leggere il Belcanto con chiavi di lettura nuove e meno fossilizzate e di dare all'orchestra non un ruolo di semplice accompagnamento del canto, ma un ruolo attivo, impegnato nell'analisi della partitura, per restituire a queste opere un peso che spesso hanno perso.

Vasilisa Berzhanskaia (Romeo) Mariangela Sicilia (Giulietta)

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