Hector Berlioz (1803–1869)

Grande Messe des morts, op. 5
per tenore solo, coro misto e orchestra

Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Antonio Pappano, direttore
Javier Camarena, tenore

Piero Monti, maestro del coro

con la partecipazione del
Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
Gea Garatti Ansini, maestro del coro
e della
Banda della Polizia di Stato
Maurizio Billi, direttore

Roma, Auditorium Parco della Musica, venerdì 11 ottobre 2019

Usare il grandioso per dipingere l’anima. E riuscirci mirabilmente. Il genio di Hector Berlioz (1803–1869) ha illuminato l’apertura di stagione dell’Accademia di Santa Cecilia, al Parco della musica in Roma. Con l’esecuzione della Grande Messe des morts, si sono rinnovate le celebrazioni per i 150 anni dalla morte del grande compositore, e si è offerta la possibilità di ascoltare una pagina rarissima. Rarissima perché monumentale, come nelle corde del musicista francese, e quindi di straordinario impegno musicale, organizzativo, finanziario. L’anniversario berlioziano ha offerto a Santa Cecilia l’occasione per lanciarsi nella temeraria impresa. Tanto più che Antonio Pappano, il direttore d’orchestra, proprio nella primavera scorsa aveva già impegnato il Coro dell’Accademia in questo titolo ad Amsterdam, con i complessi del Concertgebouw. A Santa Cecilia, l’evento ha mobilitato un organico enorme, come vuole la partitura. Al Coro e all’Orchestra dell’Accademia – un’orchestra con un centinaio di archi e sedici timpani, per dare l’idea –  si sono infatti affiancati il Coro del Teatro di San Carlo in Napoli, preparato da Gea Garatti Ansini, e la Banda Nazionale della Polizia di Stato, istruita dal suo direttore Maurizio Billi. Circa trecento elementi. Va aggiunto che questa produzione ha visto il debutto di Piero Monti, nuovo maestro del Coro di Santa Cecilia, che ha scambiato con Ciro Visco, responsabile del Coro ceciliano fino allo scorso settembre, la guida del Coro del Teatro Massimo di Palermo.

Berlioz riceve l’incarico di comporre quella che sarà la Grande Messe des morts nel marzo 1837, addirittura dal ministro dell’Interno. A quell’epoca infatti, nonostante i suoi non pochi nemici e detrattori, egli è ormai consacrato come il compositore istituzionale. Questo lavoro di musica sacra sul testo latino del Requiem, di uso non liturgico bensì commemorativo, in origine è destinato a un’importante cerimonia ufficiale di omaggio alle vittime della rivoluzione del luglio 1830, e di un successivo attentato terroristico. Se ne prevede quindi l’esecuzione entro il mese di luglio. Il musicista  – che si è accontentato di quattromila franchi a patto di avere quattrocentocinquanta esecutori –  si è gettato a capofitto nel lavoro, e procede spedito. Ma, avvicinandosi la cerimonia, il governo torna sui propri passi, preoccupato da un’estesa inquietudine sociale, a fronte della quale non sarebbe prudente commemorare una rivoluzione, e annulla l’evento. E tra le mani di Berlioz resta l’imponente partitura, congelata dal suo stesso gigantismo : per rimetterla in moto occorrono un pesante esborso, una chiesa monumentale, e soprattutto un morto importante. La sorte però assiste il musicista, e ben presto procura un defunto istituzionale come si deve. Pochi mesi dopo, nella guerra di conquista coloniale dell’Algeria, cade sulle mura di Costantina, verso metà ottobre, il comandante della spedizione, maresciallo Damrémont, e l’esercito francese perde nell’insieme cinquecento uomini. In onore dei caduti, il governo promuove una pomposa celebrazione funebre nella chiesa di Les Invalides, fissata al 5 dicembre 1837, con l’esecuzione della Grande Messe des morts. Alla presenza del Tout-Paris, l’esito è trionfale.

Quest’esecuzione ceciliana suggerisce alcune riflessioni : sulla partitura in sé, e sul pensiero musicale di Hector Berlioz. Vista la mobilitazione di un organico smisurato, e date le inclinazioni del compositore, ci si sarebbe aspettato uno tsunami acustico, una valanga di musica mirata a immergere lo spettatore in un oceano sonoro, a sprofondarlo in una dimensione per lo più magniloquente. Il che avviene, sì, in alcuni episodi di straripante drammaticità come il Dies irae  – soprattutto nel Tuba mirum, con quattro gruppi di ottoni dislocati nei quattro punti cardinali –  e il Rex tremendae, il Lacrimosa, con esiti memorabili di apocalittica tensione. Ma il flusso della scrittura è in prevalenza scandito da passi delicati, densi di tenerezza e soavità, talvolta sussurrati. E ci si accorge che l’imponente massa esecutiva viene via via disaggregata per tratteggiare una stupefacente articolazione di emozioni, in un caleidoscopio di colori che appare magistrale. Emerge così un contrappunto finissimo nell’uso calibrato delle parti, strumentali e corali. Singolare talvolta l’abbinamento di timbri estremi in orchestra : così ad esempio, in un passaggio, cantano insieme soltanto violini e contrabbassi, in un effetto di sfumata delicatezza. Perché, in effetti, è la poesia, è il raccoglimento al centro di quest’immenso affresco.

Lungi dalla ricerca della teatralità, infatti, che esigerebbe una serie di pagine vocali solistiche, nove episodi su dieci della Grande Messe des morts sono corali. E allora, ci si potrebbe chiedere : ma era proprio necessario un organico tanto cospicuo, per poi disegnare, a parte pochi episodi, un’atmosfera di palpitante, assorto struggimento ? Sì, perché Berlioz, dall’uso dei grandi mezzi che richiede, non intende affatto ricavare un massiccio impatto sonoro. Anzi, in prevalenza, il compositore disarticola le risorse coinvolte in modo da distribuire il suono nello spazio. E in questo decomporre la massa esecutiva, in aggregazioni diverse, si afferma la straordinaria modernità del pensiero musicale di Berlioz. A noi che guardiamo dalla distanza di oltre un secolo e mezzo, rammenta una delle risorse più interessanti della musica elettronica ai nostri giorni : la spazializzazione del suono. Infatti, le peculiarità espressive che l’ascolto della Grande Messe des morts richiama all’attenzione sono proprio l’iridescente policromia, e la sua distribuzione nello spazio, il tutto in una dimensione temporale chimerica, onirica. È la visione creativa del genio, che introduce in musica la risorsa della prospettiva. Ed è risultata strepitosa, a Santa Cecilia, l’identificazione di Antonio Pappano, e del suo piacere goloso del suono, con l’universo di Berlioz e di questa sua grande pagina. Egli ha infatti soppesato con attenzione certosina ogni piega della monumentale partitura, tenendo consapevolmente in pugno la mappa del percorso. Sicché Pappano, come non ha smarrito il controllo neanche per un istante nei passi più eclatanti, così ha sottolineato la palpitante delicatezza dei tanti particolari e dei momenti più raccolti. A luminoso esempio si può ricordare il Quaerens me, con il coro a cappella che dipinge con incedere trasognato la rarefazione espressiva di questo passaggio etereo.

Javier Camarena, in alto

O anche l’unica pagina che preveda un solista, il Sanctus, affidato al tenore messicano Javier Camarena, capace con la sua voce trasparente, ma ben timbrata, di rendere tutta l’angelica soavità di un’atmosfera estatica, quasi rinascimentale. E il pubblico ha ripagato l’eccezionale sforzo collettivo, avvolgendo tutti i complessi esecutivi – di casa e ospiti, il tenore, il direttore d’orchestra –  in una lunga, convinta ovazione.

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Francesco Arturo Saponaro
Francesco Arturo Saponaro ha esercitato a lungo l’attività di docente in Storia della musica, e di direttore in Conservatorio. Da sempre mantiene un’attenta presenza nel campo del giornalismo musicale. Scrive su Amadeus, su Classic Voice, sui giornali on line Wanderer Site e Succede Oggi. Ha scritto anche per altre testate : Il Giornale della Musica, Liberal, Reporter, Syrinx, I Fiati. Ha collaborato per molti anni con la RAI per le tre reti radiofoniche, conducendo innumerevoli programmi musicali, nonché in televisione per RaiUno e TG1 in rubriche musicali.

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