Modest Petrovič Musorgskij (1839–1881)
Chovanščina (Хованщина) (1872–1880)
Dramma in musica in cinque atti
Libretto  di Modest Petrovič Musorgskij
Orchestrazione di Dimitri Šostakovič (1958–59) dall'edizione critica di Pavel Lamm

Direttore Valery Gergiev
Regia Mario Martone
Scene Margherita Palli
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Video designer Umberto Saraceni per Italvideo Service
Coreografia Daniela Schiavone

Ivan Chovanskij Mikhail Petrenko
Andrej Chovanskij Sergey Skorokhodov
Vasilij Golicyn Evgeny Akimov
Šaklovityj Alexey Markov
Dosifej Stanislav Trofimov
Marfa Ekaterina Semenchuk
Susanna Irina Vashchenko
Scrivano Maxim Paster
Emma Evgenia Muraveva
Pastore luterano Maharram Huseynov*
Varsonof'ev Lasha Sesitashvili*
Kuz'ka Sergej Ababkin*
Strešnev Sergej Ababkin
Primo strelec Eugenio Di Lieto*
Secondo strelec Giorgi Lomiseli*
Uomo di fiducia del Principe Golicyn Chuan Wang*

 

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Maestro del Coro : Bruno Casoni

Nuova produzione Teatro alla Scala

 

Milano, Teatro alla Scala, mercoledì 27 febbraio 2019

Chovanščina è sempre stata un’opera ben servita alla Scala dal suo ingresso nel repertorio (1926), con produzioni sempre magnificamente cantate e dirette da Ettore Panizza, Vittorio Gui, Issay Dobrowen, Gianandrea Gavazzeni, poi con rappresentazioni del Bol'šoj (Boris Khajkin) negli anni Settanta.
In realtà
Musorgskij non è mai stato trascurato alla Scala : ci riferiamo al Boris del 1979 diretto da Claudio Abbado, regia Juri Liubimov, al Festival Musorgskij del 1981 con ripresa del Boris e nuovo allestimento di Chovanščina firmato anche lui Liubimov e un importante congresso “Musorgskij , l’opera, il pensiero”. C’è una grande tradizione italiana dell’interpretazione del musicista russo : emblematico il percorso di Claudio Abbado con  produzioni memorabili alla Scala ma anche a Vienna con Boris (Tarkovskij), Chovanščina (Alfred Kirchner) e Boris a Salisburgo (Wernicke). Le produzioni sono quasi tutte documentate dal Video e dal CD.
Da allora Chovanščina è stata riproposta alla Scala nel 1998, diretta da Valery Gergiev (con cast e produzione del Mariinskiij).  Il direttore russo è di nuovo sul podio per questa nuova produzione allestita da Mario Martone. Interpretazione musicale senza dubbio cardinale nella storia dell’interpretazione dell’opera, alla Scala e non solo.

Una regia con pretese, professionale, ma senza grande interesse 

Le regie di Chovanščina sono spesso meno notevoli di quelle di Boris. Boris permette di concentrarsi su un personaggio, quindi di portare un discorso sul potere, su un carattere, sulla Russia, sul popolo… Chovanščina centrato sul popolo russo potrebbe in teoria permettere una meditazione sul potere,  sulla religione, o sul passaggio da una Russia tradizionale e medioevale ad una Russia più aperta e “moderna” (l’arrivo di Pietro il Grande). Ma il numero e la dispersione dei personaggi, la storia stessa dei Chovanskij, confusa assai, non sono punti di riferimento chiari per lo spettatore, in particolare non russo.
Fatto sta che si vedono spesso produzioni più o meno tradizionali, più o meno convincenti. Anche l’agghiacciante (e eccellente) produzione di Dmitri Tcherniakov a Monaco di Baviera nel 2007 è sparita dai cartelloni.

Visione del primo atto

Mario Martone propone un lavoro proiettatto verso il futuro. Una Chovanščina post-atomica (?) nell’universo in rovine di un mondo post-industriale, dove giacciono macchine abbandonate, resti di edifici, raffinerie distrutte, un mondo metallico e arrugginito. Impressionanti scene della grande Margherita Palli che inquadrano un mondo segnato dalla bruttezza del disastro. Martone è un regista con riferimenti cinematografici, si sentono ricordi di Blade Runner di Ridley Scott, anche di The Road di John Hillcoat e di altri film che raccontano il “dopo” catastrofe : cieli neri, nuvole minaccianti, il tutto attraversato da piccoli veicoli aerei da sorveglianza, pieno di viadotti di cemento ridotti a ruderi, di auto bruciate.
Insomma si capisce a vista che le cose non vanno bene…
Allo stesso tempo, gadget qua e là. Abbiamo menzionato la piccola macchina volante che attraversa la scena all'inizio, potremmo anche menzionare i giornalisti con macchina fotografica e microfoni che interrogano i vecchi credenti sulla via del sacrificio, la caccia all’anatra selvatica (premonitrice?) del principe Ivan prima del suo assassinio con lo stesso fucile, gli inevitabili smartphone (riferimento al pubblico scaligero famoso per cliccare durante la rappresentazione?) che fanno una foto del cadavere di Ivan Chovanskij dopo il suo assassinio, la pesante motocicletta dello scrivano, o le danze persiane eseguite da ragazze-escort (c'è anche un travestito) impegnate in una danza di seduzione “hot”,  una delle quali finendo per sparare (al posto di Golicyn) al principe : idee senza alcun interesse se non aneddotiche, per fare "moderno" o riempire il vuoto concettuale.

Mikhail Petrenko (Ivan Khovanski), Alexey Markov(Shaklovity), (Stanislav Trofimov (Dosifei): complotti e conflitti

Eppure le problematiche eccitanti  e sempre attuali proposte da quest’opera non mancano : il disprezzo del popolo da parte di un’oligarchia onnipotente che pensa solo ai suoi interessi, i dibattiti religiosi che agitano il cristianesimo orientale come quello occidentale tra tradizione e modernità, fanatismo e apertura, integralismo e relativismo : ci sono i vecchi credenti in Russia, ci sono stati i Catari in Occidente, che tra l’altro finirono nello stesso modo, e tra Cinque- et Seicento infiniti sono stati i dibattiti e le lotte tra Riforma e Controriforma, giansenismo, pietismo e libertinaggio…

 La regente Sofia e i due piccoli Zar

C’è anche la questione del potere monarchico, ad esempio le pretese dei nobili (i bojardi) di fronte al monarco , in particolare di fronte ad uno Zar ancora bambino ed una regenza (all’inizio): si pensa a Luigi XIV in Francia di fronte alla “Fronde”, più o meno alla stessa epoca ; Martone fa apparire la regente Sofia accompagnata dei due Zar Ivan V e Pietro I° (unico esempio storico di due Zar che condividono il potere : è vero che hanno nella storia rispettivamente 16 e 10 anni, un po’ più grandi che nella loro personificazione scenica. Questa apparizione fa senso, che spiega l’agitazione dei nobili di fronte ad un potere monarchico fragile. Rimane vero che il libretto è disordinato, mescolando le epoche con una cronologia elastica.
Malgrado tutto e in particolare malgrado idee come quest'ultima per illustrare problematiche di potere, e fatta eccezione dei costumi “moderni” di Ursula Patzac e dei vari gadget, questa Chovanščina mi sembra tradizionale assai, piatta assai con relazioni tra i personaggi poco approfondite (ad esempio la relazione Marfa/Andrej Chovanskij), con un lavoro poco dettagliato sui caratteri : questa regia potrebbe avere come quadro le scene tradizionali di Fyodor Fyodorovski con cattedrale moscovita, i costumi del Seicento rifatti di Tatiana Noginova, come nella vecchia regia di Leonid Baratov del 1960 al Mariinskij ((Già vista alla Scala nel 1998)), un po’ ripulita. Di sicuro Gergiev non è stato spaesato.
Anche se ci sono scene grandiose con movimenti del coro ben fatti, anche se l’immagine finale è impressionante con questo sole infuocato che aspira i vecchi credenti , metafora di tutta l’umanità (immagine d’Ippolita di Majo), rimane il lavoro complessivo vecchiotto con vestito moderno, che fa vivere più la polvere del passato che le visioni futuristiche e catastrofiste che sembra proporre pomposamente.
Perché investire in un lavoro cosi superficiale ? A questo prezzo come già detto, meglio rimontare la regia di Baratov del Mariinskij. Almeno avremmo avuto une visione museale di una autentica produzione sovietica, a sessant’anni di distanza…

Interpretazione musicale esemplare

Il lavoro superficiale di Mario Martone comunque non da fastidio, e non disturba la musica ; l’esecuzione è di quelle che segnano una stagione.
Le esecuzioni musicali prodigiose sono troppo rare alla Scala per non soffermarsi su questa, tanto per la qualità delle forze del teatro quanto per il cast, anche se non è il cast del secolo, con una direzione davvero eccezionale.

Un cast omegeneo

Ricosnosciamo inanzittutto che quasi tutti i cantanti russi di riferimento sono in cartellone : Mikhail Petrenko (Ivan), Evguenia Muraveva (Emma), Ekaterina Semenchuk (Marfa), Alexey Markov (Šaklovityj), Maxim Paster (Scrivano) si sentono spesso in tutti i teatri del mondo.

Mikhail Petrenko ha avuto in questi ultimi anni qualche momento difficile, ma canta un Ivan pieno di autorevolezza, con voce potente, sempre un po’ chiara (non è un basso profondo nella grande tradizione dei Šaljapin o dei Ghiaurov), ma con fraseggio lodevole e bellissima espressività. È anche un cantante impegnato sul palcoscenico e buon attore : dimostra qualità notevoli e riempie la scena con una presenza imponente.

Evguenia Muraveva (Emma) Mikhail Petrenko (Ivan Chovanskij)

Evguenia Muraveva (Emma) dimostra come sempre capacità drammatiche forti, con belle presenza scenica (soprattutto nel primo atto) e voce chiara, salda, ben proiettata nell’ampia sala del Piermarini.

Ekaterina Semenchuk (Marfa) Stanislav Trofimov (Dosifei)

Ekaterina Semenchuk è una grande Marfa : voce drammatica, potente, omogenea dal grave all’acuto. Certo, il costume che fa pensare alla Famiglia Addams (una specie di Morticia con cappelli più corti) segna le sue doti di strega (scena con Golicyn) e non favorisce l’empatia, ma la sua forza drammatica e la sua espressività fanno scalpore : la sua aria dell’inizio del terzo atto, cantato in una piccola gabbia (ma è davvero utile?) è particolarmente affascinante. Dopo la sua recente Didone parigina, è una Marfa immensa : trionfo pienamente giustificato.

Altro trionfatore della serata, Alexey Markov che incarna con autorità Šaklovityj : voce chiara, affermata, espressiva e magnificamente proiettata. La sua aria (atto terzo) è uno dei momenti più grandi della serata. Ogni parola è corposa e cesellata, curata nel colore. Ecco un baritono che oggi in questo repertorio (ma non solo) è une dei più sicuri e raffinati del paesaggio lirico.

 

Sergey Skorokhodov (Andrei Chovanskij)

Sergey Skorokhodov è Andrej Chovanskij, abituato a ruoli drammatici in tutti i repertori (canta anche Pollione), si dimostra valoroso, e in particolare molto commovente nelle scene finali.

Il resto del cast è di buon livello : segnaliamo il Dosifei di Stanislav Trofimov, voce bella, timbro sontuoso, bella proiezione, ma a chi manca un po’ di armonici nei gravi. Per Dosifei conviene un basso più profondo, e ce ne sono pochi esempi sul mercato. Ma rimane un Dosifei molto giusto e degno.

Alexey Markov (Šaklovityj) e  Maxim Paster (lo scrivano)

Come sempre, l’inevitabile Maxim Paster in un ruolo di tenore di carattere, lo scrivano, dimostra una bella presenza, con piccoli problemi nei sovracuti (come spesso gli accade). Ma la prestazione rimane valorosa, anche scenicamente. Segnaliamo anche il Golicyn di Evguenyi Akimov, discreto senza essere eccezionale. Infine, bella presenza vocale di Irina Vashcenko (Susanna) e del giovane Maharram Huseynov, dell’Accademia della Scala, come pastore luterano.

Direzione musicale e forze del teatro davvero eccezionali.

Si dice che ne Chovanščina  il coro sia la vera star e abbia il ruolo principale. Ne abbiamo la conferma dopo aver sentito la prestazione a dir poco meravigliosa del Coro del Teatro alla Scala, potente, imponente, ma anche molto controllata : citiamo a riguardo il finale del terzo atto in sordina, antologico. Bruno Casoni ha fatto un lavoro di preparazione esemplare, che dimostra una volta di più che il coro della Scala rimane uno dei primissimi nel mondo. Semplicemente straordinario.

Grande lezione anche da parte di Valery Gergiev. Certo, è arrivato con un po’ meno di dieci minuti di ritardo (sempre meglio che i 45 minuti di una serata di Lohengrin a Parigi), ma viene presto perdonato per l’esecuzione assolutamente epocale. La sua visione non è paragonabile a quella così malinconica di Abbado (che aveva usato il finale della versione Stravinskij-Ravel): ci troviamo con Gergiev davanti ad una lettura poetica per certi momenti, quando la musica evoca i canti popolari russi, ma senza troppa malinconia : c’è energia vitale, dramma sempre presente, tensione continua e soprattutto momenti epici impressionanti, con senso stupefacente dei ritmi, senza mai coprire le voci ne fare dell’orchestra il protagonista assoluto e compiacente. L’orchestra della Scala lo segue con impegno, orchestra gloriosa che dimostra come sa suonare nelle grandi occasioni, producendo suono limpido, che fa sentire ogni strumento, senza scorie. µ
Grandissimo Gergiev, grandissimi orchestra e coro.
Come sempre, quando la musica è grande, la Scala torna ad essere quella della sua leggenda.

Scena finale

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