Claudio Monteverdi (1567–1643)
Il ritorno di Ulisse in patria (1640)
Tragedia di lieto fine di Giacomo Badoaro in un prologo e tre atti.
Versione di Philippe Pierlot e William Kentridge

Direttore e arrangiamenti musicali : Philippe Pierlot
Regia e animazione video : William Kentridge
Scene : Adrian Kohler e William Kentridge
Marionette e costumi Adrian Kohler – Handspring Puppet Company
Luci Wesley France

Ulisse, Humana fragilità : Jeffrey Thompson
Penelope : Margot Oitzinger
Telemaco, Pisandro : Jean-François Novelli
Nettuno, Antinoo, Tempo : Antonio Abete
Melanto, Fortuna, Anfinomo : Anna Zander
Amore, Minerva :  Hanna Bayodi-Hirt
Eumete, Giove : Victor Sordo

Ricercar Consort
Handspring Puppet Company

Teatro Massimo di Palermo, 10 febbraio 2019

Arriva al Teatro Massimo di Palermo una produzione del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi che ha già girato molto e che continuerà a girare – per motivi imperscrutabili. Inadempiente dal punto di vista teatrale, arbitraria, priva di interesse l'idea di William Kentridge di fare di Ulisse un malato terminale. Bruttissime le marionette della Handspring Puppet Company. Piatta la resa musicale, con un'esecuzione storicamente informata noiosa come un compito in classe.

Il ritorno di Ulisse in patria (Monteverdi) versione Kentridge (1)

“Considerate la vostra semenza : fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”. Così il canto XXVI dell'Inferno identifica Ulisse come l'eroe del superamento dei limiti umani, facendo battere il cuore ai lettori di tutti i tempi all'idea di una superiore spiritualità, di una divina protervia, di un ardire già precocemente superomistico. Ma Dante, si sa, era un guelfo ingenuo e idealista, e prende una colossale cantonata attribuendo a Ulisse un'arsura di conoscenza che era solo sua. Ora, grazie a William Kentridge che ha messo in scena il monteverdiano Ritorno di Ulisse in patria al Teatro Massimo di Palermo, sappiamo che con l'eroe di Ilio non è questione né di virtù e meno che mai di smania di conoscere. Nell'opera di Monteverdi (messa in scena per la prima volta a Venezia nel 1640 e ora riproposta in un allestimento molto tagliato del 1998), il re di Itaca non è l'eroe che sferza i compagni ricordando loro l'imperativo a osare per conoscere. Kentridge è bensì d'accordo con Dante che Ulisse rappresenti l'uomo occidentale per antonomasia, ma mentre la Commedia ne fa il simbolo dell'aurora d'Occidente – con quel memorabile tratto di audacia e spregiudicatezza –, il personaggio immaginato dal regista inglese è un malato terminale, il cui orizzonte non sono le colonne d'Ercole da superare costi quel che costi, ma la consunzione del corpo alla quale l'eroe-simbolo dell'Occidente, còlto impietosamente nell'ora del tramonto, ora soggiace. Così, le proiezioni che scorrono su un grande schermo posto in alto dietro la scena non raccontano le tappe dell'azione monteverdiana – che si concentra sul tratto finale dell'Odissea -, ma sgranano una sequenza interminabile di interventi chirurgici, divaricatori che aprono la carne malata, piaghe suturate, ecografie, elettrocardiogrammi, sondini gastrici che salgono e scendono nel canale esofageo, encefalogrammi tendenzialmente piatti : insomma, per Kentridge Ulisse è l'uomo della décadence contemporanea, ossessionato dalle malattie e dalle cure invasive, privato di qualunque slancio idealistico e ridotto a una pura, quanto lugubre, res extensa.

Il ritorno di Ulisse in patria (Monteverdi) versione Kentridge (2)

Forse il regista inglese, noto come artista a livello internazionale, intendeva portare avanti attraverso questa rilettura pesantemente e ridicolmente allegorica dell'Odissea una sorta di denuncia del nostro poco eroico presente, scandito dall'impudicizia dell'onnipresente dimensione corporale e giubilato senza gloria in una corsia d'ospedale. Il fatto che Monteverdi e Giacomo Badoaro (autore del bellissimo libretto secentesco) non avessero la minima intenzione di raccontare l'arrivo di un malato allettato alla sua stazione terminale – Itaca -, ma niente poco di meno che l'Odissea, cioè Il ritorno di Ulisse in patria, non deve essere parso a Kentridge una ragione sufficiente per rinunciare a comunicare la sua personale visione di Ulisse e dei suoi problemi gastrointestinali. Il testo di Monteverdi è diventato così con alquanta disinvoltura il “pretesto” per ospitare una narrazione divergente e vistosamente sovrapposta alla drammaturgia scritta. Il tutto aggravato dalla scelta insensata di non far agire i cantanti direttamente, ma di doppiarli con orrende marionette (firmate dalla Handspring Puppet Company) modellate su E.T. e talmente pesanti da dover essere animate – si fa per dire – da volenterosi aiutanti che le portano avanti e indietro per il palcoscenico, posandole quando non ne possono più su incongrui carrelli. In questo modo, quando Ulisse deve dire la sua dal letto d'ospedale dove secondo Kentridge si trova, devono farlo in tre : il manichino che fa quello che può per risultare espressivo, il mimo che lo fa muovere a tempo di canto – cioè facendogli torcere la testa a ogni messa di voce -, e il cantante che rappresenta la voce del manichino e che si sbraccia come se a parlare fosse lui e non l'altro. Esilaranti i duetti, per esempio quello finale tra Penelope e Ulisse strappato per un attimo, nella gioia di tutti, a stetoscopi e colonoscopie : si danno da fare in sei, accavallandosi e intralciandosi uno con l'altro in attesa apparente di un liberatorio “tutti giù per terra…”.

Il ritorno di Ulisse in patria (Monteverdi) versione Kentridge (3) © Franco Lannino

Modestissima la parte musicale. Se l'interpretazione di un classico è sempre un'operazione complessa perché comporta l'interazione di un'infinità di codici stilistici, espressivi, formali, e presuppone qualcosa che potremmo chiamare la “moralità” dell'interprete, che deve darsi la regola di raggiungere finché può la volontà dell'autore – ancorché espressa due, tre o quattro secoli fa -, la messa in scena dell'opera barocca è particolarmente difficile. Si coglie infatti in un lavoro come Il ritorno di Ulisse in patria il carattere aurorale di un genere – il melodramma – che non ha ancora trovato le strutture espressive capaci di accogliere la forma stabilizzandola con un corredo di convenzioni. Qui tutto accade quasi per la prima volta, e alcuni ingredienti che diventeranno comuni nel melodramma della seconda parte del secolo – arie, duetti, ariosi, recitativi – nel lavoro  monteverdiano sono ancora a livello sperimentale. Chiarissima per Monteverdi, invece, l'idea che il melodramma debba esprimere “affetti”: che non sono i sentimenti per come ce li consegnano l'opera del secondo Settecento e dell'Ottocento, – cioè irreversibilmente individuali, personali, legati a un momento drammatico preciso -, ma stati emozionali standardizzati, formalizzati una volta per tutte e spendibili in contesti diversi. Nascono così arie di carattere codificato e molto diverse una dall'altra, come le “arie-lamento” nelle quali rientra quella iniziale di Penelope, l'“invocazione al sonno” e tanti altri topoi utilizzati da Monteverdi nel Ritorno di Ulisse in patria per garantire espressività alla partitura secondo i precetti della “Teoria degli affetti”. Jeffrey Thompson (Ulisse, l'Humana fragilità), Margot Oitzinger (Penelope), Antonio Abete (Nettuno, Antinoo, Tempo), Anna Zander (Melanto, Fortuna, Anfinomo), Hanna Bayodi-Hirt (Amore, Minerva), Victor Sordo (Eumete, Giove) cantano tutto uguale, qualunque sia l'“affetto” implicato in quel momento ; si salva solo Jean-François Novelli (Telemaco, Pisandro) per una maggiore espressività, ma per il resto il panorama è quello desolante di un'esecuzione storicamente informata che restituisce una lettura piatta come un'autopsia.

Il ritorno di Ulisse in patria (Monteverdi) versione Kentridge (4) con musicisti

Ci mettono del loro anche gli svogliati strumentisti del Ricercar Consort (sotto la direzione di Philippe Pierlot): il miraggio dell'Ur-Ton, perché è un miraggio, non dovrebbe mai indurre chi utilizza strumenti d'epoca a dare per scontato il senso musicale e meno che mai a far coincidere il senso della musica con la serie di istruzioni pratiche per un'esecuzione “filologica”. Sfortunatamente per loro, ma fortunatamente per il resto del mondo, il senso della musica è una variabile che non è data dalla somma di un diapason basso, più le corde di budello, più gli strumenti barocchi, più l'arco barocco, più le messe di voce, più le note per come sono scritte : questi sono pretti supporti, che devono essere funzionalizzati e trascesi da una capacità musicale che non si misura a spanne e nemmeno a effetti di messe di voce. Scrive Nikolaus Harnoncourt che « dobbiamo cercare nell'esecuzione la forza di persuasione e non il “vero” o il “falso” […] A mio avviso, al rango immediatamente inferiore a quello della composizione stessa, che si deve trovare sempre al primo posto, vengono la passione e l'immaginazione dell'artista. Perché un artista può fare molte cose che suonano false, di cui si può dimostrare che suonano false, e tuttavia riuscire a far passare la musica sotto la pelle dell'ascoltatore, a rendergliela veramente vicina » (corsivo nostro). Ecco : forse bastava appassionarsi, immaginare di essere dei musicisti e non degli specialisti di esecuzione storicamente informata, e il gioco era fatto.

Il ritorno di Ulisse in patria (Monteverdi) versione Kentridge (5)
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Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.

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