Gustav Mahler (1860–1911)

Sinfonia n°2 in do minore "Resurrezione" (1895)
per soprano, contralto, coro misto e orchestra
dall'Inno di Klopstock "Aufersteh'n"

Christianne Stotijn, contralto
Miah Persson, soprano
Maestro del coro, Bruno Casoni

Orchestra e coro del Teatro alla Scala

Direttore musicale : Daniele Gatti

Teatro alla Scala, 16 ottobre 2017

La tradizionale inaugurazione della stagione sinfonica della Scala è illuminata in questo mese di ottobre da tre concerti dedicati alla Sinfonia n°2 « Resurrezione » di Gustav Mahler, non sentita in Scala dal 2011. Claudio Abbado doveva dirigerla per il suo ritorno alla Scala nel 2011, ma il suo stato di salute lo ha impedito ed è tornato con la sinfonia n°6 la stagione successiva. Daniele Gatti prende la sfida e porta le forze del teatro al trionfo.

Dudamel nel 2011, Gergiev con il Marinskij nel 2001, Nagano nel 2000, Kaplan nel 1990, Abbado nel 1971, Sir John Barbirolli nel 1959 e Leonard Bernstein nel 1950. Per l’ottava volta nel corso dei 67 anni che ci separano del concerto iniziale di Bernstein, la Scala propone la “Seconda” nella stagione sinfonica.
Può sembrare paradossale e potrebbe stupire per un teatro cosi legato alla tradizione italiana, ma c’è una certa tradizione mahleriana alla Scala, intanto una vera storia, se si pensa alla morte di Dimitri Mitropoulos durante le prove della Terza nel 1960, se si pensa anche a Claudio Abbado, che aveva fatto addirittura il suo debutto a Salisburgo con la Seconda (mentre Karajan gli aveva chiesto un Cherubini) e che fece alla Scala la seconda nella stagione sinfonica 1970–71 (in ottobre 1971) e durante il suo mandato dirigerà le sinfonie 1 a 7, nonché la Terza per il concerto inaugurale della Filarmonica nel 1982. Si può anche pensare anche al Mahler del direttore musicale attuale Riccardo Chailly, ex direttore musicale della Concertgebouw di Amsterdam, l’orchestra mahleriana per eccellenza. E Daniele Gatti, direttore musicale attuale degli olandesi, è anche lui noto per le sue interpretazioni mahleriane (ad esempio durante i suoi anni parigini ha diretto un ciclo Mahler che fece scalpore), senza dimenticare il Mahler di Sinopoli.
La Scala è accogliente per Mahler, e non c’è da stupirsi se la Seconda possa aprire quest’anno la stagione sinfonica. C’è un fascino italiano per il post-romanticismo mitteleuropeo, senza dubbio, e il Mahler letto da italiani viene dappertutto salutato : mezzo mondo è passato per Lucerna per ascoltare Abbado in tutte le grandi sinfonie con la Lucerne Festival Orchestra dal 2003 al 2013, e Chailly ci ha chiuso il ciclo con l’Ottava nel 2016.
Di sicuro la presenza regolare di Mahler nei programmi sinfonici della Scala ha aiutato il compositore austriaco ad essere più presente e popolare in Italia.
La « Seconda » è un pezzo che permette di verificare lo stato delle forze di un’orchestra e di un coro : è drammatica, spettacolare, e propone nella parte finale un’elevazione che riempie lo spettatore d’indicibile emozione. Impossibile che Mahler non abbia pensato alla Nona di Beethoven quando componeva la seconda, dove il coro interviene nel momento, forse, dove la “semplice” musica non può più da sola elevare le anime verso dimensioni trascendentali : la voce umana diventa allora musica che trascina verso l’Infinito.

Daniele Gatti impone una lunga pausa tra primo e secondo tempo (Mahler raccomandava cinque minuti), durante la quale il coro e i solisti entrano. La “Totenfeier” (la cerimonia funebre) del primo tempo e il ritmo danzante del secondo sono talmente diversi che occorre una pausa per consentire al ricordo del primo tempo di svanire ascoltando il secondo.

La morte apre dunque la sinfonia, un po’ come nell’Eroica di Beethoven il cui secondo movimento è Marcia funebre. Questa sinfonia, che cammina verso l’elevazione e l’apertura sull’eternità, comincia da un movimento cupo che volente nolente dà un colore all’insieme…
Questo primo movimento impone un tempo largo, lento, con accenti marcati, un incredibile lavoro sul volume, dove si chiede all’orchestra di essere sia sull’orlo del silenzio, sia su quello del fortissimo (mai saturo però) in un ritmo marcato che assomiglia ad una marcia verso la morte, che emerge dal silenzio per andare crescendo, ma sempre con lo stesso ritmo cupo in sordina. Daniele Gatti sottolinea il tellurico : si tratta di una morte terrestre, che strappa l’essere umano alla terra. Con una scienza rara dei contrasti e dei volumi, con una cura rara per le nuance e per il respiro, andando senza esitazione anche fino al rischio sui cambiamenti di colore e di ritmo, Gatti fa vivere l’orchestra come una foresta profonda di suoni, e come spesso dai grandi direttori, facendo suonare, cioè parlare l’orchestra, facendola tenere un discorso : il Mahler di Gatti non è tanto ironico ne sarcastico, non è disperato (diversamente da Abbado): Gatti preferisce la sofferenza diretta, espressa, anche contraddittoria, in dialogo (dialettico) con una poesia quasi serafica. Il suo Mahler passa dall’elegia all’epos, come da Stendhal a Victor Hugo, o meglio, da Raffaello a Michelangelo. Gatti cerca ad esprimere queste tensioni umane, questi cambiamenti brutali di stato d’anima con incredibile generosità : questo Mahler è Dono, nel senso religioso o spirituale della parola.

Colpisce in questo primo tempo, aldilà dello sguardo interpretativo di Gatti sulla partitura (che ha diretto nel settembre 2016 a Amsterdam con un pelo di distanza che non c’è oggi), l’impegno dei musicisti, la loro precisione, la loro cura del colore e dell’esattezza. Molti hanno notato la loro concentrazione nella volontà non solo di suonare, ma di fare musica nel pieno senso della parola. E il direttore fa musica e soprattutto fa fare musica, fa in modo che ciascuno ascolti l’altro, come in un’immensa orchestra da camera, perché nasca a poco a poco un colore generico, un’ambiente singolare condiviso da tutti : contrasti, echi, salti di volume costruiscono la tensione, e il finale di questo primo tempo cade quasi come una lama, in un universo cupo e misterioso,falsamente pacificato,  facendo cadere il silenzio della morte, brutale e dolce nello stesso momento,.

Eppure dopo una lunga pausa, appaiono i momenti più leggeri e felici del passato nel secondo e nel terzo tempo. La sinfonia è un percorso di morte ma  anche sguardo verso la vita appena lasciata, verso queste “cose della vita” che sono sempre da Mahler evocazioni commosse e teneri e nello stesso tempo anche sarcastiche qualche volta. Il sarcastico, il grottesco spunta sempre di più mammano che ci si va avanti nelle sinfonie. Nel percorso della Seconda questa felicità esiste nella sua fragilità nei due movimenti centrali, ma dal quarto movimento (Urlicht)c'è l'appello a Dio, transizione tra l’evocazione della vita e il momento in cui si è accolto da Dio, mentre il quinto costituisce la certezza dell’elevazione verso la Resurrezione, appoggiato su un'inno di Klopstock (1724–1803) la cui ultima strofe dice « sterben werd’ich um zu leben » ((sto per morire per vivere)).

La relativa leggerezza dei movimenti due e tre che rimangono esclusivamente sinfonici (si passa alla voce nel quarto : Urlicht appunto) non deve indurre in errore. Questa leggerezza come già detto, non è così leggera. L’evocativo, il suggerimento, da Mahler non vengono mai dati direttamente, di primo grado. L’approccio di Gatti a proposito è molto chiaro, che tiene sempre a impostare l’evocativo in un contesto dove il tragico non è mai lontano. Il tragico nel senso vero della parola : quello che contende ad una fatalità virtualmente schiacciante un destino personale altamente rivendicato come tale. Malgrado l’ineluttabilità del destino, c’è sempre una volontà forte, selvatica quasi, di resistere, di passare ogni ostacolo, con l’energia della disperazione : è ovviamente la tematica della Sesta – la “Tragica”). Ma Gatti è consapevole che anche nelle sinfonie precedenti, anche nella Quarta, più elegiaca e paradisiaca, quella che richiama all'infanzia, il tragico sia sempre sottostante.

Quest’impressione è dunque anche sensibile in questi due movimenti, dove prevale quest’interpretazione teatrale nel miglior senso della parola, con lo spettatore al centro di un dispositivo sonoro che viene distribuito in tutto lo spazio con ottoni disseminati in sala, dietro le quinte, in scena, un’interpretazione che rischia, senza mezze misure, dando accenti singolari laddove sono inaspettati, insistendo su certe frasi, alleggerendo altre fino all’estremo, sollecitando ogni strumento, quasi personalmente, accompagnandolo con sguardo espressivo, con un piccolo gesto insignificante ma pieno d’energia, mantenendo nell’insieme una stupefacente trasparenza : la foresta dei suoni è folta, ma si circola un’aria e una luce che aiutano ad identificarne ogni elemento.
Così nell’arco del secondo tempo, particolarmente danzante e leggero, Gatti insiste sugli archi gravi che accompagnano il tema iniziale. Anche se c’è volontà di pace e di calma dopo un primo tempo teso, contrastato e angosciante. Si può anche notare che in questo movimento la ripresa del tema iniziale dagli archi in pizzicato è preceduta  di un’attenuazione del volume, ma soprattutto di un silenzio molto lungo,un “quasi nulla” dal quale emergono i pizzicati che  alleggeriscono tutta la parte finale del movimento, fino alla cancellatura finale di rare eleganza, e di rara esattezza, come si tutto volasse via.

Il terzo tempo è meno elegiaco e forse meno nostalgico del precedente : certi suoni sono anche segnati da una sorta d’amarezza che altre interpretazioni sottolineano a piacere. Niente di tutto ciò da Gatti, più interessato alla fluidità del pezzo, all’omogeneità senza strappi che vuole condurre all’apertura sonora dell’ultima parte (IV e V). Quel che interessa Gatti è di costruire un percorso fino all’aldilà punteggiato da momenti nostalgici, di ricordi, di pace, ma non veramente sarcastici o grotteschi, facendo vedere più il cammino che gli ostacoli : i rimorsi, le rinunce, le resistenze saranno più evidenti in altre sinfonie più avanti nel tempo. Così la musica, cioè il tempo, diventa spazio che si apre in un clima di attesa. Gatti prepara gli spettatori in una maniera teatrale assai, all’ascensione finale dell’ultimo momento, del quale Urlicht è l’elemento primario.

Non vediamo dunque una contraddizione tra l’espressione iniziale di una potenza tellurica e l’estrema dolcezza che viene proposta altrove. C’è in questo Mahler una tonalità che include contraddizioni interne e nello stesso tempo una volontà di trascinare l’ascoltatore verso un universo più spirituale e spaziale : Un po’ come in queste architetture ecclesiali che guidano lo sguardo verso l’alto, o anche come la composizione michelangiolesca della Sistina che costringe a guardare al Giudizio Universale. Elemento sempre presente nella sinfonia attraverso l’interrogazione tragica. Quando si apre il Cielo, rimane sempre una traccia d’interrogazione molto umana, una vaga angoscia. Gatti prova a trasmettere tutte queste domande che confrontano umano e divino.

Ma il Paradiso è sempre musicale (ved.i concerti d’Angeli): ecco il senso che dobbiamo dare alla voce che sorge al quarto tempo.
Urlicht, il quarto tempo è di sicuro il più deludente. Non per l’orchestra sempre stupenda, ma per il contralto Christianne Stotijn che non riesce in questo Lied tratto dal ciclo Des Knaben Wunderhorn a sentire l’universo voluto dal direttore certo, ma anche semplicemente dalla musica stessa. Urlicht è un’interrogazione dell’anima umana che bussa alla porta divina. Dovrebbe esprimere un sentimento angosciante, pure vibrante. Il suo Urlicht rimane indifferente, non dispensa alcuna emozione, e tecnicamente, la voce proietta male, non ha linea, non appoggia sul soffio e rimane corta. Ma soprattutto non ha espressività laddove questo primo intervento umano e anche “strumentale” (Gatti ha messo apposta la solista in mezzo all’orchestra mentre nel quinto tempo sarà insieme al soprano più isolata tra orchestra e coro) vorrebbe qualcosa di forte,  che non viene mai. Quest’assenza di carattere ribalza ovviamente sul colore d’insieme ; anche se le  altre interventi del contralto nel quinto tempo sono un po’ meno impersonali. L’apparizione della voce dovrebbe segnare un momento. Non segna nulla

Bruno Casoni

Urlicht, primo intervento vocale, apre dunque sul quinto tempo, il più teatrale e il più spirituale insieme, sul quale Gatti lavora in particolare, perché è il più ricco nel trasmettere emozioni e il climax del cammino iniziato. Fa pendant al primo movimento, con la sua lunghezza ma anche perché si deve capire allo specchio del primo. Il primo è questa “Totenfeier”, cerimonia funebre : si passa adesso dall’altro lato dello specchio, si attraversa il muro di vetro per vivere l’accoglienza nel Cielo, il proseguimento del cammino, l’apertura verso un’eternità che il primo tempo sembrava vietare per sempre. Prima si stava in un dramma tellurico, fortemente legato alla terra, adesso si respira aria celestiale.
Ma dopo l’esplosione iniziale, la musica si fa più trattenuta, perché Gatti ne fa un movimento di estrema tensione, rallentando il tempo, allungando le pause, ponendo lo spettatore in una situazione di attesa nei limiti del sopportabile. Si tratta della drammatica attesa della Resurrezione, che irriga anche l’orchestra, tesa al massimo, creando un clima indicibile di mistero/Mysterium : bisogna sentire l’arpa sorda, che scandisce i momenti che precedono i terribili rulli di tamburi che aprono verso il Cielo. L’arpa come la musica si fa sordina, che crea tensione preparatoria, interrogazione metafisica che precede l’esplosione, un’esplosione forte, fortissima ma anche qui mai satura, con incredibile chiarezza che si trasforma in Luce. Impegnando con una forza tale e gli artisti, e il pubblico, Gatti non poteva che portare quest’ultima parte della sinfonia alla massima emozione. Dopo le esplosioni strumentali sorge la voce : la voce, questo strumento supremo che da solo può produrre, come all’opera, le più grandi emozioni, perché è “umano” e non “meccanico”.
Quindi è il coro della Scala strepitoso e sommamente preparato da Bruno Casoni che gli ha dato l’afflato poetico, e infuso questa scienza del sussurro, del suono trattenuto, del crescendo di volume che sembra sempre al massimo e che inonda la sala sempre di più, come un raggio sempre più caldo e solare per illuminare tutti quando si alza, facendo tremare spettatori e muri. In questo contesto, i solisti sembrano rimanere al secondo posto…Miah Persson invece difende con bella presenza e stile la parte del soprano, con vibrazioni emozionali intense.
Gatti racconta l’epopea del viaggio delle anime e il loro arrivo nel Cielo promesso, distribuendo il suono con una scienza degli effetti senza artificio, giocando con gli ottoni dietro le quinte o in sala, giocando sul lontano e sul vicino (l’arpa onnipresente e quasi tragica), modulando ogni momento. Bisogna anche ascoltare il silenzio che precede l’intervento dei corni e trombe lontane, il tempo lento,  ritardando il primo intervento del coro, il suonare degli ottoni e dei fiati (i flauti), gli echi delle percussioni, come un paesaggio pastorale drammatico, precedendo la Tempestà (esattamente come nel quadro di Giorgione), che sarebbe da solo un momentum quasi chiuso che serve da scrigno al paesaggio celeste che si apre, come dopo un momento di soffocazione, sulle voci mormoranti e sublimi del coro, per respirare in modo sempre più largo con un tempo/spazio che non sembra mai avere fine, andando verso la Luce dell’Infinito.
C’è in questa interpretazione della Sinfonia n°2 “Resurrezione” alla Scala qualcosa che va aldilà del semplice concerto. Come se qualcosa di superiore era la posta in gioco. Come se bisognava di nuovo dimostrare al mondo quale strumento può essere il Teatro alla Scala quando sente il vento spirituale superiore della musica e dell’arte soffiare… Questa sera, musicisti, coro, solisti hanno insieme fatto musica, e la sala è stata presa da vertigini : gli spettatori escono anche loro stremati, comprovati, ma felici : da quando non si erano sentite queste urla, questa felicità di stare qua per vivere insieme un evento strepitoso, anzi sconvolgente.
Quella sera vibrò la Scala. Come per una Resurrezione.

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