Giuseppe Verdi (1813–1901)

Aida
Opera in quattro atti(1870/71)
Libretto d'Antonio Ghislanzoni tratto da Auguste Mariette

Nuova produzione

Riccardo Muti, maestro concertatore e direttore d'orchestra
Shirin Neshat, regia
Christian Schmidt, scene
Tatyana van Walsum, costumi
Reinhard Traub, luci
Martin Gschlacht, video
Thomas Wilhelm, coreografia
Bettina Auer, dramaturgia

Roberto Tagliavini, Il re
Ekaterina Semenchuk, Amneris
Vittoria Yeo, Aida
Yusif Eyvazov, Radamès
Dmitry Belosselskiy, Ramfis
Luca Salsi, Amonasro
Bror Magnus Tødenes, Un messaggero
Benedetta Torre, Grande sacerdotessa

Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor
Ernst Raffelsberger, Maestro del coro
Wiener Philharmoniker
Angelika-Prokopp-Sommerakademie der Wiener Philharmoniker, Musica di scena

Salzburger Festspiele, Grosses Festspielhaus, 22 agosto 2017

Un'Aida molto attesa. Ritorno in buca di Riccardo Muti dopo un po’ di astinenza, prima Aida di Anna Netrebko e primo Radamès di Francesco Meli, prima regia d’opera di Shirin Neshat, un artista iraniana che si dedica a fotografia e video, ma anche alla situazione della donna nel suo paese e un "cast B" dove la giovane coreana Vittoria Yeo e il tenore russo Yusif Eyvazov alternavano con le due stelle del canto.. Abbiamo sentito quest’ultimi. Impressione dolce-amara di una replica al di sotto degli standard salisburghesi al livello canoro e registico.

 

Immenso Fthà (Benedetta Torre, coro)

 

« Verdi come Mozart !» Ecco quello che Riccardo Muti dichiarava alla stampa una ventina d’anni fa, in occasione di una nuova produzione di Trovatore alla Scala (regia di Hugo De Ana). Per difendere una certa idea di Verdi, Muti si è dedicato a far sentire un Verdi analitico e molto dettagliato, dove ogni nota è scolpita, in se un lavoro di gioielliere ma dove il teatro e il sangue verdiano erano lasciati in giacenza, per consacrarsi ad une ricerca sperduta del bel suono, come se Verdi avesse bisogno di essere riconosciuto come un genio della scrittura musicale. Non c’è n’era bisogno perché comunque Verdi è – banalità dirlo o scriverlo- un genio nella scrittura ma anche nel teatro.
Si sa che c’è un Muti degli anni 70, folgorante, inatteso, vitale, sorprendente, e un Muti più consensuale degli anni 80 e soprattutto 90, dove si è dedicato a isolare ogni particolare delle partiture per esaltarne bellezze singolari, qualche volta dimenticandone appunto gli aspetti teatrali
Verso gli anni 90 ha anche dato l’immagine di un difensore del classicismo scenico assoluto, rifiutando regie troppo ardite, oppure eliminando iniziative non ortodosse di registi con i quali lavorava (Jérôme Savary per l’Attila scaligera si era lamentato).
In una produzione dove ha di sicuro imposto simili condizioni, Muti, che ha senza dubbio firmato una delle più belle Aida della discografia nel 1974 con Caballé e Domingo (EMI), torna a dirigere Aida a Salisburgo, 38 anni dopo la precedente produzione firmata Karajan, direzione (sublime) e regia (molto meno…), nel 1979, che avevo avuto la fortuna di vedere.((Con niente meno che Freni, Horne, Carreras, Raimondi, Cappuccilli, Ghiaurov))
Le leggi dell’agenda hanno fatto che ho assistito alla Prima del cast detto B, con la giovane coreano Vittoria Yeo, che Muti segue da vicino, e il tenore russo Yusif Eyvazov, che è anche (puro caso) sposo di Anna Netrebko.

Vittoria Yeo (Aida)

Muti è stato particolarmente attento ai cantanti, sostenendo in particolare Vittoria Yeo per permetterle di valorizzare notevoli qualità : grande controllo vocale, bella capacità ad alleggerire e a ammorbidire, a curare filati esemplari, facendo sentire una voce molto omogenea, ben impostata, ben proiettata anche se piccola. Ella compensa il volume piccolo assai con una tecnica affermata. Non è una voce per la grande sala di Salisburgo forse troppo ampia, ma sarebbe ideale per sale medie come Zurigo o la Fenice, anche se si sente perfettamente la sua voce nei concertati. È anche commovente, giocando sul colore, e malgrado un piccolo incidente nell’aria del Nilo (“O patria mia, mai più ti rivedrò!”), ci ha gratificato d'un bellissimo duetto finale. Bel successo meritato perché se non ha la voce grande, piena e carnosa della Netrebko, non ha per nulla deluso.

Yusif Eyvazov (Radamès)

Yusif Eyvazov è in qualche modo il suo opposto. Senza discussione ha i mezzi requisiti dalla parte, la cui difficoltà sta nella via di mezzo tra l’eroismo di Otello e le raffinatezze di Ernani. Ecco perché Meli, che fu un notevole belcantista,  in questo momento in cui la voce cambia e si allarga, va verso parti più pesanti come Don Carlo o Radamès.
Eyvazov è più Otello che Ernani…la voce è assai ben impostata con dizione chiarissima, e acuti belli e smaglianti, ma incapace di mezzevoci, di filati alla Kaufmann, delle raffinatezze requisite dalla parte. Appena il canto richiede qualcosa di più sottile, di raffinato, la voce deraglia, ad esempio nell’acuto di Celeste Aida, oppure nell’ultima nota del duetto finale. A parte il fatto che ha sbagliato l'ingresso nel terzo atto, questo gli ha valso dei buh non meritati, perché la prestazione è rimasta dignitosa. Ma aldilà del canto, il problema di Eyvazov è la sua incapacità a dimostrare personalità o carisma qualunque in scena. Al di fuori dei gesti tenorili stile anni 40, 50 o 60, mani sul cuore o braccia aperte, non fa nulla del suo corpo Non disturba in una regia che nella fattospecie non chiede nulla ai cantanti, ma è talmente inesistente che ne diventa invisibile…

Vittoria Yeo (Aida) e Ekaterina Sementchuk (Amneris)

L'Amneris di Ekaterina Sementchuk rimane nella tradizione dei grandi mezzosoprani di origine slava con note gravi di petto (l’emissione ricorda da molto lontano la Obraztsova senza averne i mezzi ne la presenza scenica). La sua Amneris rimane comunque spettacolare, anche senza voce così potente tra l’altro. Ma in assenza di Netrebko, raccoglie il più grande successo della serata perché è l’unica a portare in scena un po’ della drammaticità verdiana.

Luca Salsi (Atto II)

Luca Salsi è un Amonasro energico, proietta bene la voce senza troppa eleganza però, davvero spesso impressionante assai . Ma non era in quella serata in grande forma e non ha dato il massimo.
Più deludenti i due bassi Roberto Tagliavini (il Re) e Dmitry Belosselskyi (Ramfis) che erano quasi inesistenti, al di sotto delle loro abituali prestazioni, anche mediocre assai per Tagliavini.
Bror Magnus Tødenes, ha sbagliato l’ingresso e non era a tempo con l’orchestra, ma ha finito meglio di quanto non avesse cominciato.
In compenso l’intervento nella scena di Fthà (immenso Fthà) alla quale la splendida direzione di Muti dava un colore misterioso e vagamente inquietante, di Benedetta Torre quale sacerdotessa è stata notevole : linea di canto impeccabile, con voce pura e magnificamente controllata e omogenea. Il suo immenso Fthà è stato uno dei bei momenti della serata. Una giovane cantante da seguire…
Riccardo Muti dirige un'Aida piuttosto intimista, il che è giusto per un’opera creata al Cairo per un teatro dalla capienza limitata, e sappiamo che il teatro Verdi di Bussetto, in territorio verdiano, con una capacità di 300 posti, ha presentato un'Aida versione “cameristica” nel 2001, c'è un'interessante DVD a proposito. (( https://www.naxos.com/catalogue/item.asp?item_code=107088))

E’ molto attento a valorizzare le voci, in particolare molto concentrato su Vittoria Yeo, che accompagna con grande raffinatezza.Il preludio è un capolavoro d’interiorità, e di tensione allo stesso tempo, altri momenti orchestrali (atto del Nilo) sono fenomenali grazie alla plasticità dei Wiener Philharmoniker in stato di grazia, con fiati da urlo e archi caldi, carnosi, incredibilmente lirici. Muti alleggerisce il suono al massimo e nello stesso tempo ne mantiene la chiarezza. Ne risulta un lavoro al microscopio che rivela i più minimi  dettagli, con tempi qualche volta assai lenti, ma con altri indiscutibilmente teatrali dove spuntano qualità d’energia e vigore che sembravano un ricordo del Muti giovane di un tempo.  La scena del trionfo spettacolare e dinamica, con ottoni magici dei Wiener, l’atto terzo, lo abbiamo già segnalato, è stupefacente (gli archi dei Wiener…): comunque gli atti III e IV sono i più convincenti, forse perché più trattenuti, e pieni di tensione., con un' coro preparatissimo (quello dell'Opera di Vienna diretto da Ernst Raffelsberger) Nell’insieme la direzione musicale mi ha entusiasmato : ho letto qua e là  "freddezza" o "distacco": non ho sentito nulla di simile.

Il problema dello spettacolo non è tanto musicale che scenico, come purtroppo spesso negli spettacoli diretti da Muti nel passato.
Muti è convinto che nella lirica tutto procede dal direttore. Ma si sa da Wagner almeno che l’opera lirica è mista, totale, Gesamtkunswerk ((opera d’arte totale)), dove la regia contribuisce nello stesso modo a rendere conto del pezzo. Laddove una regia è elaborata insieme al direttore con ritmi e idee combacianti , i risultati sono spesso eccezionali. Gli spettacoli diretti da Muti alla Scala che hanno segnato la memoria sono rari, non per causa della musica, ma perché non ci sono state proposte sceniche all’altezza della proposta musicale. È un'illusione credere che la regia sia solo un'illustrazione elegante del dramma, che permetta di concentrarsi sulla musica senza disturbarla.

Se ci sono riserve da esprimere a riguardo, consistono nell’avere senza dubbio incoraggiato le tendenze della regia di Shirin Neshat a non far fare nulla, né ai cori, né ai cantanti. Si sa che Muti ama avere il coro di fronte a lui, erano tutto allineati sui gradini senza un movimento. E i cantanti ci hanno offerto una rosa dei gesti più convenzionali dell’opera, con grandi movimenti del velo (che cambia colore ad ogni scena, rosso, giallo, bianco, blu, nero, a secondo della situazione) di Amneris-Sementchuk, come se fossimo a Verona per aiutare a identificare il personaggio da lontano. Non succede nulla in questo teatro : gli spostamenti dei soldati fanno ridere (soprattutto quando corrono), i movimenti quando ci sono, sono disperatamente banali, se non fatti male. Gesamtnullwerk : il teatro invisibile di Wagner sarebbe stato meglio. ((Wagner, quando ha visto il suo Ring a Bayreuth, ha dichiarato : “ho inventato l’orchestra invisibile, magari avessi inventato il teatro invisibile!”…)).

I costumi di Tatyana van Walsum sono eleganti, ricordano da lontano, da molto lontano l’Egitto o l’Oriente, quelli dei preti sono una sintesi tra ortodossi, ebrei, musulmani, il balletto è più ridicolo che inutile (coreografia di Thomas Wilhelm): sette poverini con maschera da ruminanti (allusione a Hathor, dea dell’amore e delle feste?), e le scene di Christian Schmidt, molto essenziali, si riducono a una scatola bianca gigante (qualche volta divisa in due) che ovviamente ricorda il sepolcro finale (molto ampio, un loft funebre), una scatola bianca dove sono proiettati video non molto funzionali ne utili, ma strettamente illustrativi : preti, popolo, acque del Nilo…  Le luci di Reinhard Traub salvano alla fine un’apparenza di intimità eterna.
Sembra che Shirin Neshat, artista che viene dalla fotografia, non conosca il mondo dell’opera lirica e non abbia potuto esprimere la più minima idea. Rimane l’impressione che tutti si siano passati la parola per far e in modo che non succeda nulla sul palcoscenico. NULLA.

Il trionfo (Atto II)

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