Madama Butterfly
Giacomo Puccini
Versione originale Milan (17 février 1904)

Tragedia giapponese in due atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
(Ricostruzione della 1ª versione 1904 di Julian Smith ; Casa Ricordi, Milano)

Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala

Durata spettacolo : 03 ore e 05 minuti incluso intervallo

Direttore Riccardo Chailly
Regia Alvis Hermanis
Scene Alvis Hermanis e Leila Fteita
Costumi Kristine Jurjāne
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Coreografia Alla Sigalova
Drammaturgo Olivier Lexa
Madama Butterfly
(Cio-Cio-San)
Maria José Siri
Suzuki Annalisa Stroppa
Kate Pinkerton Nicole Brandolino
F.B. Pinkerton Bryan Hymel
Sharpless Carlos Álvarez
Goro Carlo Bosi
ll Principe Yamadori Costantino Finucci
Lo zio bonzo Abramo Rosalen
Yakusidé Leonardo Galeazzi
Commissario imperiale Gabriele Sagona
L'Ufficiale del registro Romano Dal Zovo
La madre di Cio-Cio San Marzia Castellini
La zia di Cio-Cio San Maria Miccoli
La cugina di Cio-Cio San Roberta Salvati
Teatro alla Scala, 10 dicembre 2016

Il Teatro alla Scala presenta per la prima volta la versione originale di Madama Butterfly rappresentata una sola volta in febbraio 1904, nella scia del lavoro filologico iniziato da Riccardo Chailly sulle opere di Puccini. Una produzione senza sorprese, ma con una direzione musicale eccezionale.

La produzione inaugurale della stagione della Scala deve manifestare agli occhi del pubblico e della stampa lo stato del teatro al momento : lo spettacolo inaugurale è testimone della perfezione d’una delle grandi istituzioni mitiche dell’Italia. In più, quest’anno, con Madama Butterfly, creato alla Scala, viene messo alla ribalta il repertorio tradizionale, di casa, una garanzia per un pubblico voglioso di italianità.

Il 17 febbraio 1904, la Prima fù un tonfo, e Puccini debbe rivedere la partitura, riproposta a maggio dello stesso anno, in una versione modificata che parti per la carriera che si sa. Però, Riccardo Chailly ha deciso di proporre la versione princeps, in una regia spettacolare e fotogenica di Alvis Hermanis. Impresa filologica che prende il suo senso nell’ambito del progetto Puccini, una delle linee direttrici della sua politica musicale .

Si è dunque scoperto questa versione poco nota, più lunga di più di 25 minuti, con arie leggermente cambiate, una parte sinfonica molto sviluppata tra secondo e terzo atto, Kate Pinkerton che canta qualche breve frase e alcune altre piccole modifiche.
Possiamo dire che Puccini a fatto bene a sgrassare la sua opera, di cambiare di qua di là una o due note che cambiano tutto, e di rendere più nervoso quello che sembra in questa versione un po’ lungo, un po’ maldestro e non sempre musicalmente ben azzeccato. È pero interessante ascoltare una versione che permette di capire come si passa dal rispettabile/dignitoso al capolavoro, togliendo qualche momento inutile e qualche frase : si guadagna drammaturgicamente, soprattutto per l’efficacia teatrale di questa tragedia giapponese, la più crudele di tutte le opere pucciniane.

Per quest’occasione, Alexander Pereira ha chiamato Alvis Hermanis, con il quale ha lavorato a Salisburgo (Die Soldaten, Il Trovatore, Gawain), un regista piuttosto tradizionale sotto vestiti qualche volta modernizzanti : nulla da temere per lo spettacolo che per eccellenza deve fare consenso. Infatti, Hermanis propone una Nipponeria, secondo l’espressione stessa di Pinkerton, un Giappone messo in scena che è la proiezione di quello che gli occidentali vogliono vedere del Giappone, sovracaricato di costumi, fiori, paesaggi che fanno immagini, senza sempre fare o dare senso. Per di più, aldilà del pittoresco, questo Giappone è fatto di essere inferiori, assoggettati al dio Dollaro dal quale Pinkerton allaga con gioia e disprezzo tutta la comunità.

E questo provoca ambiguità : la scelta soddisfa di sicuro il pubblico turistico felice di trovare una Madama Butterfly fotografica, belle immagini, bei colori e Giappone a tutto spiano. Un Giappone plateale. Pero dietro gli occhi si legge tutt’altro in questo lavoro, solo che è difficile da riperire.  Non sembra sfiorare la mente del pubblico presente, occupato a maneggiare il telefonino (una malattia diffusa nella platea della Scala), e canticchiando un bel dì vedremo oppure stupito dai bei costumi di Kristīne Jurjane. Tale ambiguità conforta una certa visione

condiscendente dell’Oriente, che rimane oggi ancora viva, e che era quella dell’epoca di Puccini, e della quale Madama Butterfly appunto è una denuncia : dovrebbe forse portare ad una visione del XXI° secolo che prenda più distanza rispetto alla crudeltà della situazione e affermi una presa di posizione più radicale rispetto allo sfruttamento delle popolazioni locali : la vecchia regia di Jorge Lavelli alla Scala, ai tempi d’oro in cui in questo Teatro c’era anche riflessione, andava molto più in là, anche nell’estetica.

Caricaturale assai per sembrare una visione “al secondo grado”, ma spettacolare assai per sembrare una visione “al primo grado”, è una produzione consensuale che ha risposto a tutte le esigenze di una trasmissione TV : è il suo difetto principale.

Bisogna stare molto attento allo spettacolo per coglierne le vere intenzioni : è un gioco pericoloso per ché sono nascoste assai. Le immagini generiche sono come fotografie degne di un’operetta, con stampe immense che appariscono e spariscono, quadri scorrevoli come le porte delle case giapponesi perché le scene di Alvis Hermanis e Leila Fteita sono una casa giapponese con piani, alta da sbarrare ogni orizzonte e da ridurre lo spazio scenico al proscenio. In alto si vede balletto di Geishas, oppure il terribile Zio Bonzo, e anche Kate Pinkerton, altra silhouette fatale. Questo dispositivo concentra tutta l’azione in primo piano dove si piazza il coro che non ha respiro spaziale e i personaggi costretti a muoversi su un area ridotta e sempre lateralmente.

Appoggiato su un lavoro attento assai ispirato al Kabuki, e cercando ad insegnare ai cantanti l’arte delicata del gesto teatrale giapponese, Hermanis propone una coreografia dove Maria José Siri ha un po’ di difficoltà ad essere credibile “niponizzando”. Unica a saper gestire la situazione, la Suzuki d’Annalisa Stroppa riesce a unire gesti eleganti e espressività del viso, con senso drammatico acuto.
È encomiabile che Alvis Hermanis si sia appoggiato sulla tradizione del Kabuki per studiare con grande precisione gesti e movimenti dei personaggi, rimane però vero che il gioco inerente al Kabuki lo sanno fare perfettamente gli attori giapponesi : coro e cantanti scaligeri non possono che imitare una tradizione a loro estranea : e il pubblico non può fare la differenza tra tradizione Kabuki autentica e la Butterfly tradizionale dell’opera : per lui è figurazione del Giappone, non pezzo di Giappone autentico. In questo teatro, con meno grandiloquenza, la regia di Keita Asari era più autentica. Questo Giappone rimane artificiale e sopra le righe, quello che toglie credibilità all’impresa se è filologica, e ne aggiunge se è ironica.
Di fronte a questo Giappone eccessivo, i due americani, fanno contrasto, compreso tra di loro. E questo non è una tanto cattiva idea.

La discreta eleganza di Carlos Alvarez (Sharpless) è notevole : questo modo trattenuto di stare in scena dà immediatamente al personaggio un’umanità reale : un console normale, umano ma distanziato, praticando il “niente di troppo” con un gioco equilibrato di grande dignità.
Per quanto riguarda il Pinkerton di Bryan Hymel, bisogna essere ingenua come Cio-Cio-San per dargli fiducia : senza dignità, senza rilievo, senza nobiltà : esattamente il personaggio vigliacco e quasi volgare voluto dalla storia : esso respira la leggerezza. Da questo punto di vista, Sharpless e Pinkerton sono disegnati molto bene dal regista. Pinkerton si oppone allo stile rigido e apprestato della parte giapponese in un contrasto che colpisce. Sotto questo punto di vista, è forse il personaggio meglio dipinto dalla regia, e forse il più giusto.
Ultima ambiguità, la scena finale vista alla maniera un pochino piagnucolante di un finale de La Bohème che toglie ogni grandezza : c’è qualcosa da capire al secondo grado. Da una parte un rituale molto preciso di Hara Kiri, dove CIo Cio San si sgozza, alla maniera delle donne nobili he praticano il Jigai ((Jigai : forma di suicidio rituale usato dalle mogli e figlie di samurai)), ma dove anche Pinkerton si getta sul suo cadavere in lacrime, quale Rodolfo davanti a Mimi, e urlando i suoi “Butterfly!” ma presto abbandonandolo per togliere il nastro sugli occhi del bambino e guardarlo negli occhi come per dire “come sarai felice con noi negli States!”. Avvenire assicurato. Dimenticata Butterfly, parentesi giapponese nella vita di un marinaio. Questa visione di Pinkerton è una delle rare idee di una regia che mette faccia a faccia caricatura del Giappone e caricatura dell’America. Caricature visibili, ma non totalmente affermate. Questa regia non è leggera come un’operetta per turisti in passeggiata : non si dà chiaramente, serve quello che chiamavo prima l’ambiguità della tematica e potrebbe anche essere compresa in maniera distorta. Semplicemente perché ci manca l’emozione, ci manca l’empatia : il secondo atto dove Cio Cio San si pone come Madama Pinkerton in mezzo a mobili di casa americana- l’idea non è nuova – affermando la sua conversione al cristianesimo –idea più nuova ma eccessiva- non è fatto male, ma è anche una specie di caricatura ; la successione delle scene dove il personaggio nega ostinatamente l’evidenza potrebbe essere più lavorata nei gesti, perché il vestito occidentale non nasconde la cultura giapponese (marcata dalla bella scena dei ciliegi): si poteva anche approfondire la psicologia : non lo è affatto. Come se la regia si rifiutasse di scegliere.

Da questo spettacolo si esce con la fame. Fame di una linea chiara. L’immagine conclusiva senza dubbio voluta e rivendicata, potrebbe anche essere vista come “salvataggio” del bambino da un Occidente che lo strappa ad un’avvenire orientale per forza degradante. Se questa conclusione è letta come male minore, non è conservatrice, ma autenticamente reazionaria. Prezzo da pagare per la pax americana.
Quindi l’eccesso di pittoresco locale finisce per togliere il dramma distanziandolo : la tragedia è certo giapponese, ma lo è all’italiana, firmata Puccini, Giacosa, Illica. Il prisma dello sguardo è singolarmente distorto e il Kabuki solo artificio, esercizio di stile, mai vissuto.

Dal lato musicale, la realizzazione è senza contesto incredibilmente lavorata e preparata dalle forze del Teatro alla Scala, che dobbiamo celebrare all’altezza della loro prestazione eccezionale. Primo di tutti il coro meraviglioso, perfettamente preparato come sempre da Bruno Casoni : il coro a bocca chiusa della fine del secondo atto è nientemeno che sublime. Per quanto riguarda l’orchestra, è eccezionale da tutti punti di vista, senza nessuna scoria, con una chiarezza, una limpidezza straordinaria e strumentisti, solisti e no, notevoli ad ogni posto. Certo, è il suo repertorio, ma è all’apice : teso, giusto, tecnicamente senza difetti, con colori scintillanti come quel che sarebbe una seta sonora.

La compagna di canto riunita dimostra una certa diffocoltà a trovare interpreti adeguati per un’opera che non ne ha trovati tanti in scena nella sua storia recente. Si trovano bellissime Butterfly discografiche che non hanno mai osato il teatro. A parte la fenomenale Kabaivanska, che ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, non ho mai sentito una Butterfly convincente, salvo una serata, al palais Garnier di Parigi, dove Leontyne Price, per la sua unica apparizione parigina, e l’unica volta che mi è stata data di sentirla, ha messo la sala in ginocchio cantando “Piccolo iddio” (con pianoforte) che mai più sentiro cosi.
E’ una parte difficilissima, che esige una presenza quasi continua di natura diversa dall’inizio (la giovane) alla fine (la donna), con accenti diversi e voce da adolescente al primo atto e donna matura al terzo atto, con un lavoro permanente sul volume, il colore, per trasmettere l’emozione intensa del ruolo e della musica. Maria José Siri cantava Cio Cio San per la prima volta : di sicuro maturerà la sua interpretazione col tempo. E’ per lei una bella sfida cantare tale ruolo cosi esposto nel contesto scaligero. Possiede la tessitura, le note (acuti un po’ meno esigenti in questa versione), fa tutto con coscienza se non con facilità : passaggi, tecnica, volume non fanno grandi difficoltà e ma l’insieme rimane un po’ piatto con problemi di fraseggio nel secondo atto. Non riesce mai a commuovere, ad essere pienamente convincente a vivere la parte, perché tanto occupata a cantare. Poca espressione, poca varietà di colori : forse anche le esigenze della regia, e l’impossibilità di rendere la fragilità del personaggio entrano nell’impressione di prudenza in una prestazione certo decorosa, ma non esattamente ancora all’altezza del personaggio.
Bryan Hymel è uno dei buoni tenori del momento, ma il suo timbro è appena riconoscibile, opaco, velato, con problemi di proiezione, di impostazione vocale, con centri strani. fraseggio e emissione problematici. Hymel ci è sempre piaciuto nel repertorio francese (Grand Opéra) e generalmente romantico : sembra essere fuori parte in questa Madama Butterfly, ma anche con certi problemi vocali che non c’erano un anno fa. Semplicemente mi chiedo cosa può aggiungere Pinkerton alla sua gloria. La parte è ingrata, tesa, e senza grande interesse musicale : serve con professionalità l’interpretazione voluta dalla regia, è fisicamente il personaggio, ma non vocalmente, al di fuori dal mondo pucciniano.

Il Sharpless di Carlos Alvarez è esattamente il personaggio atteso : Alvarez è sempre sommamente elegante e il ruolo conviene allo stato attuale della voce. Il timbro caloroso e nobile serve particolarmente l’interpretazione, si sente in retro piano il suo meraviglioso Posa. L’attore è un po’ distanziato ma naturale anche, l’insieme è totalmente convincente, tanto più notevole che Sharpless non è un ruolo tanto interessante neanche lui : esige una forte personalità per occupare il personaggio dall’interno. Ecco quello che riesce Alvarez
Annalisa Stroppa, scoperta e apprezzata a Salisburgo l’anno scorso nella Lola di Cavalleria Rusticana conferma quest’impressione iniziale. La voce non è eccezionale, ma l’espressività notevole e l’interpretazione commovente. Sa perfettamente usare dello stile voluto (il Kabuki) per farne qualcosa di personale, con espressioni del viso e accenti nella voce che colpiscono. Di tutti i personaggi, è lei che diffonde la massima emozione e che va direttamente al cuore.

Nell’insieme dei ruoli di appoggio, o di complemento (ce ne sono molti nella Butterfly), da notare l’eccellente Goro di Carlo Bosi : voce forte, espressiva, presenza : ecco un cantante nella grande tradizione dei ruoli secondari eccelsi che si sono visti spesso alla Scala : qualsiasi cosa canti, Carlo Bosi è espressivo, giusto, azzeccato. Certi altri sono molto dignitosi come lo Yamadori di Costantino Finucci oppure Nicole Brandolino, nella parte brevissima di Kate Pinkerton alla quale Puccini riserva un momento cantato in questa versione originale. Brevissimo intervento, ma molto marcato. Invece lo zio Bonzo di Abramo Rosalen ha timbro opaco e autorità vocale discutibile laddove si aspetterebbe una voce impressionante e sonora da basso.

Nell’insieme la compagnia è molto dignitosa, senza nulla di eccezionale pero.
Eccezionale, magistrale, esemplare invece la direzione musicale di Riccardo Chailly : senza contesto, la sua direzione fa tutta la rappresentazione, al punto che qualche volta uno ha l’impressione che i cantanti accompagnano l’orchestra e non il contrario, perché la linea musicale s’impone con la massima autorità. Colpisce il secondo atto dove dalla buca emerge una musica con linea continua, prodigiosamente precisa, luminosa, facendo vedere con enfasi come è scritta questa musica, la sua complessità nei suoi minimi dettagli, con un gioco sui volumi, sui livelli di lettura mai sentito fino ad ora. Chailly dimostra di essere uno dei grandi interpreti-esegeti di Puccini oggi, come Maazel poteva esserlo quarant’anni fa.
Quello che colpisce nell’approccio, è l’affermazione di un’esigenza musicale di ogni istante, facendo dell’orchestra il protagonista assoluto, a dispetto della compagnia stessa, tanto quello che succede in buca è affascinante, anche ipnotico.
Questa perfezione fa perdere anche qua un po’ di emozione. C’è in Puccini (ed è anche la sua ambiguità) qualcosa di un po’ facile, di un po’ “sporco” (in tutto rispetto per il geniale compositore), che si nota molto nella Fanciulla del West ad esempio, che nasconde la straordinaria raffinatezza della composizione. Il suo lato “acchiappatutto” e l’emozione diretta, nata dall’accentuazione melodrammatica – in particolare in Butterfly – sparisce per lasciare un’incredibile pulizia, una costruzione netta, inventiva, intelligente, anche innovativa e monumentale che accantona un po’ l’emozione semplice, anche lei una delle grandi qualità della musica pucciniana. Cosi questa direzione appare una costruzione finalizzata a sé stessa, un po’ narcisistica che accentra tutto attorno a lei, a dispetto di tutto il resto, una compagnia dignitosa ma non eccezionale, e una regia ambigua e liscia assai da non disturbare la direzione-dimostrazione musicale.
Manca in scena e in buca la linea diretta con l’emozione. Siamo invece in linea diretta con l’ammirazione del lavoro del direttore, ma le linee sono un po’ disturbate per il resto. E si sa che l’opera è una sorta di treppiedi sopportato da canto, direzione e regia. Il direttore non può tutto se canto e regia non sono all’altezza della direzione. E allora lo spettacolo non funziona come si vorrebbe. La rondine non fa primavera, e fiore di ciliegio ha vita breve…

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